Da un anno in rete su Exibart, la rubrica Marginalia ha ospitato diverse realtà italiane definibili spazi no profit, come Edicola Radetzky, BOCS, Random, Localedue, Madeinfilandia, ma anche pratiche artistiche collettive come Lu Cafausu, E il topo, There is no place like home, Incompiuto Siciliano o più precisamente femministe o sconfinanti nella letteratura. Ma ritenendo la pratica diffusa e/o partecipativa qualcosa che non si esaurisce nel suo essere originariamente collettiva, allora si è aperta anche ai singoli artisti come Marinella Senatore e Flavio Favelli, oltre ad un museo dallo statuto ibrido come il MAAM o un antecedente storico come il Museo della Catastrofe di Vettor Pisani.
A questo punto è lecito, se non obbligatorio, chiedersi se esista un filo conduttore in tutto ciò, o se il procedere “sentimentale” sia l’unico valore possibile, ma questo condannerebbe l’indagine ad un’alta dose di soggettività, di cui non si esclude la presenza ma non si può permetterne l’assoluta imperatività. Allora parlando di soggettività, si direbbe di una soggettività condivisa, una prima persona che si declina al plurale, un io che diventa noi perché partecipe delle esperienze che racconta. Una visione non monoculare dunque che si propone di raccontare quel che accade non smettendo mai di questionare i propri strumenti di analisi perché – per dirla con Michel Foucault – si vorrebbe comprendere il modo di esistenza, di circolazione e di funzionamento di certi discorsi all’interno della società.
Marginalia è partita dal presupposto che spesso quel che succede fuori dai circuiti ufficialmente deputati all’arte, come musei, gallerie, fiere o biennali, allontana dall’atmosfera vernissage/finissage tanto di moda ed avvicina ad un sentire più intimo, vero, umano, fatto non solo di oggetti in vetrina, ma di opere, processi, incontri e dialoghi. Ponendo questo nell’ottica di un fluire di esperienze e accadimenti è difficile pertanto mettere degli argini, per quanto marginali.
Flavio Favelli, Mobilia Essay
I confini dei marginali sono infatti mobili e nebulosi; inizialmente flussi di forme residuali del sistema e delle sue leggi si immergono nel magma di quello stesso sistema che quanto più assimila tanto rigetta, creando sempre e più complesse forme di marginalità.
Il Novecento ha dato i natali al concetto di eterotopia, non solo nella visione più nota di Foucault ma anche in quella meno diffusa ma ugualmente significativa di Henry Lefevbre. Per Foucault le eterotopie sono «spazi differenti […], luoghi altri, una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo», sono degli altrove localizzati che designano luoghi reali, anche se si contrappongono a tutti gli altri, spesso come la loro stessa negazione. «Le utopie consolano […], le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzi tempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa “tenere insieme” (a fianco e di fronte l’une alle altre) le parole e le cose». Completamente differenti e decisamente meno “inquietanti” appaiono le eterotopie di Lefebvre, descritte come spazi sociali liminali ricchi di possibilità, nei quali «qualcosa di differente» è non solo possibile, ma anche fondamentale per definire delle traiettorie rivoluzionarie.
Random, Gagliano del Capo (LE)
Quel qualcosa di differente non nasce necessariamente da un progetto consapevole, ma più semplicemente da ciò che la gente fa, sente, percepisce e riesce a esprimere nel tentativo di dare un senso alla vita quotidiana. Tali pratiche generano spazi eterotopici in cui si intravedono delle possibilità di azione collettiva per creare qualcosa di radicalmente diverso. Diverso rispetto a cosa? Per rispondere oggi è prima di tutto necessario uscire dall’opposizione dialettica tra centro e periferia, retaggio di un modernismo e di una logica capitalista che ha usato le antinomie del sistema per accrescere la sua capacità di diffusione e penetrazione nell’immaginario comune (si pensi soltanto al dualismo: città/campagna; paesi sviluppati e non etc. ) al solo scopo di fingere un livellamento salvifico o forse, più precisamente, si dovrebbe dire, democratico.
Non è dunque più possibile definire il marginale come periferico; la sua specifica accezione di “non centrale” si è sgretolata da tempo sotto il peso del postmoderno, quando tutto è deflagrato per disseminarsi minuziosamente sotto i nostri occhi, nel nostro quotidiano. Forse allora sarebbe più opportuno associare la parola al suburbano o al sub-reale, cioè qualcosa che si sviluppa attraversando da “sotto” la realtà, tanto da essere presente eppur invisibile perché sommerso, nascosto e quand’anche si palesi lo fa in forma eterea, effimera o coperto dalla maschera del mistero e dell’ambiguità.
Marginalia erano, si è detto nel primo numero della rubrica, le note scritte al margine del testo dagli amanuensi mentre ricopiavano i libri antichi e permettevano la trasmissione del sapere. Marginalia erano quegli spazi bianchi che si riempivano di volta in volta di parole libere, flussi di pensiero svincolato da un centro, tanto da confondere la linea stessa che separava il testo dal suo margine controllato.
Il filosofo della différance, Jacques Derrida, raccoglie in un unico volume dal titolo Margini della filosofia una serie di saggi incentrati in particolar modo sul linguaggio. Si parla del verbo essere, di metafora, di “mitologia bianca”, di figure oblique, di timpani che disseminano la foné, ovvero la voce, e ancora di irregolarità, differenze e di senso, quella sostanza così impalpabile sinonimo di significato che a sua volta è in grado di declinarsi specificando gli organi attraverso i quali sentiamo, gustiamo, tocchiamo, odoriamo, guardiamo.
Le eterotopie inquietano perché minano segretamente il linguaggio si diceva.
Margo è la forma poetica della parola margine. In poesia è usato al vocativo, riprendendo il sostantivo di terza classe latino margo, marginis che è doppio nel genere perché declinabile sia al maschile che al femminile. Ed allora è quanto mai curioso trovare un commento di Giacomo Leopardi ai suoi Canti, in cui spiega l’uso duplice della parola: essa contiene in sé due generi, scrive il poeta di Recanati, come la sposa di Pigmalione che fino allo sposalizio era di genere neutro. E sappiamo che quella sposa all’origine era una statua.
Dire di un margo poetico nell’arte è dichiarare l’esistenza delle poetiche del margine, ovvero di quegli atti di creazione declinati in forma plurale come facere de materia e non creare ex nihilo. In questa prospettiva le poetiche del margine saranno allora quelle possibilità di combinazione dell’esistente, che si fondano e si confondono nel quotidiano, creando nuovi spazi di relazione e possibilità di interazione ibride che, partite da una forma neutra, si modellano sui luoghi scelti e sugli individui che intervengono in maniera attiva ad un processo di soggettivazione e alla costruzione di un dispositivo che riposiziona continuamente i suoi margini.
Serena Carbone