La pubblicazione del libro Curatori d’assalto di David Balzer, l’inaugurazione della 16a Quadriennale di Roma, il riallestimento della Gnam ora GN, fanno riflettere ancora una volta sui mediatori dell’arte. Faccenda vecchia, se ne parla da troppo tempo ormai. Da Harald Szeemann (di cui a breve uscirà un docufilm) ai nostrani Achille Bonito Oliva, Germano Celant, Francesco Bonami e Massimiliano Gioni, di acqua – e di corpi aggiungerei – ne è passata sotto i ponti. Curatori si curatori no: tra detrattori e sostenitori non è semplice districarsi in maniera limpida. Ma in queste poche righe non interessa tracciare una linea di demarcazione ed irrigidire ancor di più i termini dell’equazione, quanto aggiungere una x (non molto incognita in realtà) per riflettere più in generale sul loro ruolo perché – rassegniamoci all’evidenza – finché, esisterà un pubblico, il sistema per sorreggersi ha bisogno di chi metta in relazione l’opera con il medesimo. Sta poi agli artisti ed ai singoli attori di questo theatrum mundi – come visto attraverso alcune realtà indagate in questa rubrica – trovare il modo di disinnescare il dispositivo, scompaginare il testo e mettere in crisi le posizioni, non per affondarle ma per ricrearle. Questa però è un’altra storia, foriera di presagi e avventure future… ora occorre ritornare al presente perché di fatto i curatori sono un ingranaggio importante per il funzionamento dell’apparato espositivo.
Mi servirò di alcune riflessioni, non molto attuali, ma che permettono di spostare il punto di vista non tanto sulla figura in sé, quanto sul modo e il senso in cui opera. Edgar Wind nel 1963 pubblica Arte e Anarchia, se di primo acchito il titolo porterebbe a pensare ad un libro incentrato sul rapporto tra l’arte e l’ordine o con il suo contrario, il caos, a leggere le prime pagine si evince che non è così. Avverte subito Wind «Non vorrei che la parola “anarchia”, messa a capo di queste conferenze, suggerisse al lettore l’idea che intendo parlare in difesa dell’ordine». Ma neanche del suo contrario, nonostante «una certa misura di scompiglio e di confusione può infatti contribuire a suscitare energia creativa». Energia creativa, teniamo a mente quest’espressione. E continua: «Le forze dell’immaginazione possiedono una loro energia dirompente e capricciosa che l’artista deve sapere amministrare con prudenza», perché la passione frenetica dell’arte – scriveva Baudelaire – è un cancro che divora il resto. Lontano dalla deriva romantica sull’artista genio o sul temperamento saturnino, i saggi di Wind ruotano piuttosto sulla creazione artistica e sulla formazione dell’opera in un momento storico in cui l’arte – egli crede – è diventata marginale alla vita e, disgiunta dall’esistenza, sta diventando una “splendida superfluità”.
Nell’ultimo saggio, Arte e Volontà, dopo averci offerto la mirabile metafora del rapporto tra artista e pubblico come quello di Narciso ed Eco nel corrispondente mito (Narciso è innamorato della sua immagine, ma Eco che potrebbe distoglierlo non ne ha le capacità perché le poche parole che pronuncia non sono altro che la ripetizione delle ultime sillabe udite), egli puntualizza che il problema tra arte e volontà potrebbe essere posto in realtà come quello dell’atrio con il tempio. Se dentro il tempio l’artista si trova da solo, nell’atrio no, nell’atrio lo circondano gli “amici” che lo hanno accompagnato fin lì per superare la soglia. Ed ecco la sentenza: abbiamo lasciato vuoto l’atrio dell’arte. Ma chi sono questi amici e come soprattutto interagiscono con l’artista in questo spazio aperto?
Andando indietro nel tempo Wind ricorda le dispute che Michelangelo aveva con Giulio de’ Medici per la Cappella omonima. Il futuro Papa Clemente VII interveniva incessantemente sui bozzetti una e più volte, insisteva sul conoscere l’idea anche se fosse ancora in fase di elaborazione. Ed è storia che Michelangelo non avesse proprio un caratterino affabile, proprio per questo sorprende sapere che il suo discepolo Convivi racconta che nonostante i continui disappunti, un giorno l’artista gli raccontò che Clemente VII possedeva un’eccezionale capacità di comprensione del processo artistico. Ed uguale cosa egli ricorda del rapporto tra Isabella d’Este e il Mantegna o di Alfonso d’Este e Tiziano e poi più recentemente del mercante Vollard con i suoi artisti ed in particolar modo con Renoir che sotto un suo ritratto lo appellò proprio raseur che, nel francese familiare, significa rompiscatole. Il mecenate era una figura che non solo commissionava l’opera, ma interveniva attivamente durante il processo che avrebbe portato alla sua realizzazione e non sempre in maniera delicata, anzi infastidiva e pungolava di continuo l’artista interferendo nelle diverse fasi di produzione.
Venendo al Novecento, Wind ricorda le parole di Jean Arp quando fu chiamato a lavorare per delle sculture destinate alla sede UNESCO di Parigi. Arp rimase amareggiato del fatto che nemmeno gli architetti avevano da «perdere un po’ del loro tempo, per discutere seriamente coi pittori e con gli scultori su come le opere di costoro dovessero essere concepite per inserirsi nel piano generale dell’edificio».
Senza troppo generalizzare, sembra che il mondo dell’arte oggi abbia proprio perduto il tempo (sarà per questo che le mostre romane continuano ad insistere sull’argomento?!), insieme alla capacità di contrattare, negoziare i suoi spazi esterni come interni, gli spazi dello spirito. Quando Michelangelo parla di Clemente VII come un uomo dotato di capacità di comprendere il processo creativo, questo non si traduce infatti nell’imposizione pedissequa di una volontà, ma piuttosto nella sua capacità di entrare ed uscire dal processo creando la giusta tensione per disturbare la “potenza” dell’atto creatore (quella potenza che per Agamben è sia potenza-di che potenza-di-non produrre l’opera). E l’attrito generato da quell’essere dentro e fuori dal processo, sposta la carica dell’immaginazione quel poco quanto basta per non implodere e diventare scomoda per l’artista stesso in primo luogo. Ecco il dialogo critico.
Si dice che quando Marcel Broodthaers organizzò la quinta e penultima mostra del periodo Décor nonché della sua vita (Decor. A Coquest by Marcel Broodthaers che si terrà all’Institute of Contemporary Arts di Londra nel 1975) pose un’unica condizione al direttore Barry Barker: Take the risk with me. La mostra era incentrata sul rapporto tra la guerra e il comfort. Barker, ovviamente, non si tirò indietro.
«Potategli la stravaganza, rendetelo sobrio, e lo distruggerete». Ecco l’anatema lanciato sull’artista contemporaneo.
Serena Carbone
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Il processo creativo, in base alla mia esperienza ormai trentennale di artista e ricercatrice dell'invisibile, è un processo che appartiene alla natura stessa dell'essere umano ma anche a ciò che lo trascende. E' l'immaginAzione (in me mago agere) che diviene manifestAzione: quell' unione alchemica di cui parlavano gli alchimisti ed i "maestri" di tutti i tempi e luoghi, fra visibile e invisibile, fra spirito e materia.
L'essere umano odierno ha perso memoria di questo sottile filo che lo lega, in un continuum entangled, alle altre multidimensioni di Sè. L'artista contemporaneo ha quindi un compito, quello di ascoltare quegli Echi per ridurre in Sè tutte le separazioni e comunicare agli altri l'originaria unità, affinchè tutti possano riconquistarla in Sè e con questo tutte le originarie potenzialità di co-creazione per contribuire a manifestare quel "piano delle idee" ispirate da suoni, colori e vibrazioni che appartengono alla "armonia delle sfere". Come artista, ho creato uno strumento semplicissimo, il metodo melAjna, in grado di rendere consapevole a chiunque voglia sperimentarlo, le dinamiche energetiche creative che hanno un impatto sulla realtà di ognuno di noi, e in perfetta sintonia con ciò che dice e sperimenta la fisica quantistica.
Ho inoltre creato un luogo fisico, Il MitreoIside di Corviale, nel quale sperimentare l'interazione fra arte e vita e l'importanza del ruolo dell'artista nella trasformazione di ogni realtà, anche la più disagiata, al fine di integrare ogni periferia e separazione: interna ed esterna.