“Siamo stati Baskyzzati!” così i battitori d’asta di Sotheby’s hanno esclamato quando il quadro di Banksy, con sopra dipinta una bambina che regge un palloncino a forma di cuore, si è autodistrutto sotto gli occhi attoniti del pubblico e, probabilmente, del malcapitato acquirente.
Eppure nulla è cambiato, anzi, quell’opera perdendo la sua integrità coram populo ha accresciuto il suo valore diventando un oggetto dadaista, ossia un’opera d’avanguardia che, negando la sua immagine, ha acquisito la dignità. L’azione è diventata una performance di cui il cascame, la traccia, è testimonianza di un fatto certificabile mediaticamente. Si tratta di un passaggio cruciale che ha un effetto di cancellazione della natura ambigua dell’opera presentata all’asta. Il quadro di Banksy, infatti, era già qualcos’altro rispetto all’opera murale fatta con lo stencil, la Bambina con palloncino avendo una cornice era quindi un dipinto su supporto mobile che, interrotto il suo “commercio con il reale” (José Ortega y Grasset, 1921) si offriva al reale commercio. L’ingresso nella genericità della merce però non è stato sabotato dall’atto di rovina, come dispositivo quell’immagine aveva, di fatto, già abbandonato lo statuto di opera di street art.
La protesta che ispirava e ispira l’opera del fantomatico artista famoso è solo, in tal caso, un valore aggiunto a un dipinto mediocre che è già di per sé riferimento “sistemico o omeostatico di moda, luogo comune, norma estetica” (Marcello Faletra, 2015). Immaginiamoci ora l’oggetto che abbiamo visto abbandonare la sala d’aste: una cornice semi vuota, che cinge solo una porzione di quadro da cui sbuca un cuore rosso, mentre dal basso debordano dal confine dorato le barbe del dipinto tagliato da un meccanismo che è parte di un oggetto costosissimo, bello no? Questo nuovo oggetto potrebbe (come probabilmente è stato), essere rivenduto al doppio del prezzo di partenza proprio in virtù dell’evento mediatico.
Banksy, Girl and Balloon, 2002
L’arte sembrerebbe, infatti, avere bisogno del rilievo dei social network quasi fosse una soluzione necessaria al completamento finale dell’opera. Inclusa nella prassi operativa dell’artista, la rete farebbe parte di un sistema di pubblicità cui nemmeno un Marinetti della prima ora avrebbe potuto immaginare. In un certo senso l’opera resta “aperta” sin quando la sua diffusione mediatica non la completa. Si badi bene, però, non è il consenso nei riguardi del significato dell’opera impresso nella materia in questo caso a definire ciò che è arte, ma piuttosto l’apprezzamento di un’immagine in funzione della sua condivisione. In altre parole, non si tratta di apprezzare un significato attraverso una forma, quanto piuttosto di accettarla come evento partecipando con i commenti e i “Like”. La rete diventa parte sostanziale del processo di ri-qualificazione del modus operandi dell’artista Banksy, suo luogo di senso.
L’autore, nel rivelare l’inganno, s’è fatto complice di un’operazione di cui è ingenuo pensare che non fosse consapevole delle conseguenze. È un’operazione schiettamente promozionale che gioca, in effetti, sull’affermazione di uno stile capace di abilitare tra le opere d’arte moderna ciò che prima viveva una dimensione di eccedenza. Ciò che non era accaduto nella fragranza del suo esordio, risplende nella certezza della sua affermazione. In altre parole, conscio della sua “finzione narrativa” (Hans Belting, 1995), Banksy si rivolge al sistema dell’arte, trasformando il nemico in nemesi. Abbandona il terreno della provocazione urbana, diventata ormai l’ovvia dimora “stilistica” delle sue immagini e abbraccia la ben più remunerativa celebrazione nel tempio del mercato dell’arte. La prassi delle avanguardie storiche, la provocazione, è rappresentata in questo spettacolino mediatico per una platea scaltra e vigile d’investitori, mostrandosi più diffusamente a un pubblico ben più numeroso plaudente ma smemorato e, nel peggiore dei casi, capace solo di condividere una misera messa in scena. Detto ciò è legittimo pensare che un’immagine possa diventare un’opera d’arte in virtù di un’opinione che circola su di essa in rete.
Banksy, The Flower Thrower
La maggior parte di ciò che troviamo su internet, non arriva mai a ottenere un livello di attenzione sperato poiché questo livello è selezionato ed è suo malgrado selettivo. (Boris Groys, 2018) Procede da quello che definisco Global Motion (movimento globale) al Local Emotion (emozione locale). In un certo senso, eliminando la pretesa universalista tipica dell’utopia avanguardista, si rivolge al singolo corroborando, in quanto pseudo scelta autonoma, quell’universo artificiale che Thomas Maldonando, alla fine degli anni Sessanta, chiamò Mesocosmo (1970) un luogo dove si organizzano singole suggestioni e intime emozioni. Nel quadro dell’artificio privato, è centrale e quanto mai incombente la spinta verso un allineamento al sentimento collettivo in una sorta di Compiacenza implicita (Emanuele Arielli, 2016). Nella costruzione del proprio universo artificiale, si tende a scovare nell’archivio della rete una plausibile definizione del presente, una sua immagine isolata in un luogo appartato lontana da quel museo immaginario alla Malraux proposto dal modello culturale. Nell’immagine della Bambina col palloncino si riconosce chiaramente lo stile di Banksy, ma si apprezza soprattutto la sua riproduzione e diffusione poiché è un evento visualizzato, in quanto copia adattabile alle esigenze consultive. La comunicazione che permette la costruzione di questa immagine di senso è solitamente “iper-semplificata, sensazionalistica, ammiccante ricalcata su quella pubblicitaria e soprattutto rivolta a un pubblico fedele che vuole leggere quello che sa già.” (A. Dal Lago, 2017) Ciò è anche frutto di una crisi dei luoghi dell’arte, in primis, del museo quale spazio di esplicitazione della storia dell’arte e di avvicendamento lineare degli stili. Così, se Banksy ammicca al sistema dell’arte, implicitamente sta ammiccando al museo quale ultimo approdo per una definitiva consacrazione. Ma in quale museo spera di entrare Banksy? Il museo è oggi uno spazio polivalente cioè ha valore in più funzioni spesso del tutto diverse da quelle per cui è stato in origine pensato. Da un lato è un luogo che insegue le tendenze, dall’altro prolunga l’idea moderna di arte come produzione di stili e di riconferma della storia.
Banksy, Season’s Greetings, 2018
Il museo contemporaneo conserva ma, al tempo stesso, distrugge la logica della conservazione poiché promuove una continua rivisitazione della finzione narrativa. Il museo diventa pertanto un posto, dove si svolgono biennali, cioè mostre temporanee, dove non si contempla più o si studiano i pezzi di una collezione permanente. La natura eventuale delle manifestazioni effimere si scontra con la natura stanziale delle opere nel museo, ossia con il luogo in cui si riconosce la comunità cui questo luogo appartiene e dove culturalmente insite. Il museo non è più nemmeno il bersaglio prediletto dalle avanguardie. È proprio il museo contemporaneo a non interessare Banksy. Il suo rivolgersi alla sovranità del museo rinunciando alla fluidità dell’immagine significa sceglierlo come sede stabile dell’arte moderna. Questa stabilità si riferisce all’idea di porsi “tra” le opere d’arte, esulando dalla vaghezza dell’estetica che predilige la pura percezione, Banksy pone-pensa alla sua opera come autonomo fatto sociale. Non è un caso, pertanto, che una delle azioni più famose di Banksy sia stata quella di affiggere delle sue opere alle pareti delle sale del MoMa di New York dimostrando che, in definitiva, il suo lavoro consiste in “fermare” l’immagine a un supporto materiale, trasformandola in Picture (W.J. T. Mitchell, 1994). Ciò fa pensare che sia in atto la ricerca spasmodica di un’aura incantatrice in grado di trascendere la banale connessione tra figura e significato nell’ordine della relazione tra corpo e immagine.
Marcello Carriero