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L’Arte Povera dilaga da Torino a Bari. E gli altri quando?
Politica e opinioni
Il movimento creato da Germano Celant occupa gli spazi dei maggiori musei italiani. Un giusto riconoscimento a qualcosa che è entrato nelle pieghe della nostra epoca, ma che implicitamente afferma la marginalità degli artisti di oggi. Celebrare il passato può significare la rinuncia a documentare lo stato dell’arte nazionale? A complicare le cose ci si mettono intellettuali e filosofi [di Francesca Pasini]
Era impensabile seguire tutte le tappe dell’Arte Povera, nonostante le inaugurazioni differenziate, chiarisco subito che ho visto solo quelle al Castello di Rivoli e alla Triennale di Milano. Una celebrazione che attraversa l’Italia da Torino a Bari ci sta: è un movimento che ha segnato la storia dell’arte contemporanea, che è bene presentare a chi non aveva ancora l’età per assistere alle sue pur numerose mostre. In questo anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia è stata giustamente celebrata anche la Transavanguardia, ma ci siamo fermati qui. Quando si farà in Italia una selezione ufficiale, anche severa, degli artisti e delle artiste che sono venuti dopo? Ci sono personalità che hanno raggiunto altrettanto riconoscimento internazionale, anche se non possiamo parlare di movimenti coesi, ma questa è la situazione dell’oggi. Non auspico una solitaria e provinciale autarchia, ma una maggiore tempestività nel documentare lo stato dell’arte nazionale, come succede in tutti Paesi del mondo.
Germano Celant ha realizzato il suo disegno di avere la maggior ampiezza di spazi per documentare al meglio le opere di questi grandi maestri, ma proprio la durata delle sue mostre ha ridotto lo spazio per altre iniziative in quegli stessi musei. E quindi, anche volendolo, non è stato possibile creare un confronto a distanza tra i maestri dell’Arte Povera e le generazioni seguenti. Peccato. Si sarebbe potuto usare l’anniversario dei 150 anni per dare anche un quadro unitario del processo artistico e aprire la domanda su cosa è l’arte oggi. E di nuovo peccato, perché le mostre dell’Arte Povera continuano a porre con efficacia questa domanda, realizzando ancora lavori di qualità, sebbene ormai il movimento si sia risolto in singole individualità. E tutto ciò risalta maggiormente specie se pensiamo alle ultime due Biennali di Venezia, dove l’arte italiana è stata rappresentata al ribasso e al di fuori del dibattito internazionale.
Penso sia importante riconoscere in un’opera una chiave per analizzare ciò che succede nella società, nel pensiero, negli affetti: al Castello di Rivoli e alla Triennale ho trovato molti testi indispensabili per leggere la storia e l’oggi. La celebrazione è un’occasione per pensare. Bello! Ma recentemente ho letto i pensieri di due filosofi che hanno affrontato a muso duro il tema di che cosa sia oggi l’arte.
Maurizio Ferraris (“la Repubblica”, 17 dicembre, 2011) scrive che l’«estetizzazione diffusa e oggetti carichi di seduzione estetica, quali gli Iphone, le webcam, le flash memory» sono una conferma «della morte dell’arte profetizzata da Hegel due secoli fa: non riguarda tutta l’arte, ma solo quella visiva che si autocomprende come Grande Arte Concettuale, mentre altre arti stanno benissimo e ne nascono di nuove. Non sarebbe la prima volta (per esempio, a un certo punto sono scomparsi i poemi epici e sono apparsi i romanzi) e la cosa davvero interessante è chiedersi che cosa ci sarà dopo, o se il dopo è già qui». Nell’articolo di Marco Cicala (“la Repubblica – Venerdì”, 13 gennaio 2012), sulla nuova edizione Einaudi del saggio di Benjamin, L’opera d’arte nella sua riproducibilità tecnica, Massimo Cacciari, autore dell’introduzione, a proposito della morte dell’arte afferma: «In Hegel, l’opera moderna è ancora frutto dell’artista genio, mentre Benjamin fa un passo avanti e incorpora la creatività nell’apparato tecnico-produttivo del mondo contemporaneo. Epperò è pur sempre Novecento – grandissimo Novecento. E ha ancora in mente la centralità della fabbrica. Ma al suo autore come produttore è ormai subentrato da tempo l’artista come mercante. Senza alcuna accezione spregiativa, ma designa una dimensione in cui ancor prima che merci, quel che va prodotto è il loro consumo». Ricordiamocelo quando si pensa alle mostre.
Nel film sulle giornate di Amalfi (1969), visibile sia a Rivoli che alla Triennale, si ascoltano giudizi tranchant sul mercato e sulla vendita delle opere. Allora era il Novecento, centrali erano i movimenti di opposizione e quindi, parafrasando Cacciari, la creatività era incorporata nell’ “apparato tecnico” della cultura politica collettiva. Poi le loro opere si sono vendute, anzi sono la punta di diamante delle migliori collezioni, quindi anche per l’Arte Povera si deve parlare di artista come mercante? Mi si dirà che per loro il mercato ha una valenza più “classica”, è possibile, ma la questione è come affrontare quella sentenza in rapporto alla supremazia dei mercati che si sta sostituendo alle politiche dei singoli Paesi, come dimostra la bufera dello spread di questi mesi.
Non penso che l’arte possa essere la ricetta salvifica, ma può evidenziare una critica, un commento, un allarme autonomi, o una complicità, proprio perché prevede che l’artista sia produttore e mercante. Cacciari dice: «Oggi l’arte ci si presenta nuda e perciò ci fa ridere. Ma non è un giochetto: è una testimonianza decisiva del nostro essere sociale, che artisti come Cattelan, ad esempio, interpretano con grande intelligenza». Personalmente aggiungo che il parallelo tra l’ultima mostra al Guggenheim di New York e il suo annuncio di fare altro è già un’opera d’arte, che esplicita il dilemma: bisogna rincorrere mostra dopo mostra, immagine dopo immagine o affrontare un cambiamento in atto, anche se è ancora nudo? Oppure, come propongono molti artisti, fare un passo indietro e reinventare la fisicità specifica dell’opera?
francesca pasini
La rassegna di Amalfi si è svolta ad ottobre del 1968 e non nel 1969. Alla luce della storia del movimento, è una precisazione necessaria. Ma forse bisogna dar ragione a Stefano Chiodi quando, riprendendo Claire Gilman, dice che l’Arte Povera è il movimento artistico “meno sistematicamente studiato nel nostro paese”!
Alberto Esse
“Arte Povera 2011”: quattro errori per una mistificazione critico-storica
L’operazione-evento “Arte Povera 2011”, che doveva costituire un importante momento di documentazione e storicizzazione di un movimento che giustamente è considerato con il Futurismo di fondamentale importanza nell’avventura delle arti visive del secolo passato, rischia di ottenere effetti opposti.
E non solo a causa di due errori (o falsi) storico-critici: l’estensione forzata e forzosa fino ai nostri giorni di un movimento conclusosi all’inizio degli anni ’70 e la sua limitazione a soli ed esclusivi 13 protagonisti. Errori (o falsi) tanto evidenti da destare stupore (a chi non sia addentro all’odierno sistema dell’arte in Italia) che il fior fiore dei direttori di musei e istituzioni di arte contemporanea coinvolti nell’operazione ed il fior fiore dei critici raccolti nell’enorme catalogo che accompagna la mostra non se ne siano minimamente accorti. Ma tant’è!
Se si esaminano le mostre in corso e si leggono i contributi critici del catalogo appare evidente che vi sia un tentativo diffuso di far passare come elemento fondante, quando non esclusivo, dell’Arte Povera quello dell’uso di materiali poveri (visti e declinati in tutte le loro funzioni poetiche, estetiche, concettuali, oniriche ecc).
Ora, se è innegabile che l’uso di materiali poveri (considerati soprattutto, molto concretamente, come portatori di una visione poveristica anticonsumistica) fosse UNA delle caratteristiche di questo movimento, è altrettanto innegabile che accanto a questa ve ne erano altre della stessa importanza e fondanti: la critica al ruolo e alla funzione della figura dell’artista quale “giullare” del sistema dell’arte basato sul mercato e la critica al sistema di produzione e diffusione dell’arte (allora e tuttora) vigente attraverso gallerie e musei, con la conseguente ricerca di nuovi ed “altri” circuiti di comunicazione e di nuovi ed altri utenti individuati in primo luogo nelle classi e categorie sociali protagoniste del grande cambiamento in atto in quegli anni.
Da quest’insieme di caratteri deriva la forte spinta antiistituzionale di una forma artistica che non a caso veniva apertamente definita, nel primo e più significativo manifesto, come “Arte di guerriglia”. Tutte caratteristiche che oltre ad essere, come visto, ben presenti nei testi critici erano soprattutto presenti nelle opere e nell’operare anche dei nostri, o meglio celantiani, “magnifici tredici”.
Il tentativo di mistificare e svuotare l’Arte Povera dei suoi significati primari, riducendola da complessa arte di guerriglia a innocua merce da aste, è pienamente confermato poi nelle scelte espositive con cui, almeno nelle principali mostre di Milano, Bologna e Torino, rispetto a una possibile ipotesi di museizzazione, si è scelto la via della museificazione. Vale a dire, la acritica e meccanica trasposizione in spazi rigidi di opere spesso nate per vivere ed essere fruite fuori da gallerie e musei. Opere spesso nate per essere interattive e coinvolgenti, per essere strumento performativo, per essere toccate, usate, a volte anche distrutte costrette in rigidi spazi museali dove, per ragioni di principio o di sicurezza, non possono essere pienamente fruite e utilizzate, ma nemmeno toccate subendo una straniante decontestualizzazione ambientale e storica con un’operazione di re-aurizzazione che contravviene in pieno al loro spirito iniziale.
Certamente il problema della museizzazione, e in generale della esposizione delle opere storiche dell’Arte Povera, è complesso e di difficile soluzione. Ma il negarlo, il non prenderlo minimamente in considerazione, il non affrontarlo con corrette scelte filologico-espositive nell’allestimento della maggioranza delle mostre di “Arte Povera “2011”, il far languire in spazi e situazioni inadatte opere nate per interagire e vivere assieme al fruitore è , a mio avviso, un ulteriore errore imperdonabile che va a completare un’operazione tesa al progressivo svuotamento dell’Arte Povera a favore di una sua re-aurizzazione che risulta funzionale non tanto alla ricerca e alla sistematizzazione storica e critica quanto a una banale reificazione.
Il re (o il critico o i critici demiurghi) è nudo. Possibile che nessuno (o pochi) se ne accorga?
alberto esse
La verità è che l’arte povera e chi la ha creata, stanno in tutti i musei perché hanno il potere e perché sono nelle mani di chi ha il potere, ovvero certe fondazioni danarose. Già Luce Betarice ne ha parlato nel suo libro.
Io non vado a vedere le loro mostre e chi ha un minimo di buon senso dovrebbe fare altrettanto. Che le loro mostre facciano FLOP! Anche se poi c’è il rischio che si stacchino i biglietti da soli…
Caro Mario,si ha notizia che tutta l’Arte Povera è molto preoccupata per la tua mancata
presenza alle mostre in corso.
Certo quelle del Luca Beatrice sono altra cosa
e se tu le segui,naturalmente, le atre ti appariranno certamente d’altra categoria.Lo sono senz’ombra di dubbio.Permetti un consiglio?
Se puoi invia anche all’estero la tua opinione,
vi è quasi la matematica certezza di sentiti ringraziamenti e gratitudine (accomunando il Beatrice,ovviamente).