L’asilo incerto

di - 2 Ottobre 2018
Già dall’ingresso di via Reggio Emilia si vede gente fuori. Entro, e trovo una folla, molto giovane, più giovane di quella che normalmente popola le aperture di mostre e musei d’arte contemporanea. Facce per lo più sconosciute. Mi guardo intorno, c’è proprio tanta gente,  8mila persone dirà poi con orgoglio stizzito Luca Bergamo, vicesindaco e assessore alla cultura di Roma. Ricambio generazionale? Magari. Ricambio ambientale, più che altro. Ma è una festa. Il fatto è però che a me, invece che allegria, questa storia mi mette tristezza. Non ho ancora visto niente, se non un’installazione di scatoloni e un’altra con un video in mezzo ad altri scatoloni che troneggiano nel grande atrio centrale. E che danno un senso di precarietà, forse di fuga dal sistema dell’arte? Chissà. Non giudico quindi i lavori, si tratta proprio di una storia.
Siamo al 30 settembre 2018, quante aperture e riaperture del Macro avrò visto in 10, 15 anni? Non me le ricordo neanche più. E quante storie, quante battaglie, quante sconfitte, quante ripartenze in tutti questi anni? Troppe, in ogni caso, per essere credibile questa di oggi.
Vabbe’, concedetemi un po’ di Amarcord, sia pure amaro e, per problemi di spazio, molto di corsa e con inevitabili errori di memoria. Ormai è storia e qualcuno prima o poi dovrà pur raccontarla questa storia accidentata dell’arte contemporanea a Roma, e quella, parecchio sfigata, del Macro.
Me lo ricordo quando si chiamava Galleria Ex Birra Peroni, con la mostra di Burri, anni dopo quella di Schifano, tanto per dirne un paio. Ed era un luogo questo sì, precario, mezzo capannone e mezzo niente, lontano anni luce dall’essere liftato da un’archistar. Poi, appunto, arrivò il progetto della francese Odile Decq, con Veltroni sindaco di Roma, Danilo Eccher direttore del museo, che era diventato Macro e quindi museo a tutti gli effetti, anche se era molto cantiere, ma con mostre di livello e ben finanziate. Erano gli anni d’oro di Roma, c’era anche il cantiere del Maxxi (tutte due, Macro e MAXXI si bloccheranno per alcuni anni), di lì a qualche anno avrebbero aperto anche delle fondazioni dedicate all’arte contemporanea, create da collezionisti che allora erano ai vertici degli Amici del Macro, potente sostegno, più che economico, di consenso al museo.
Macro Asilo
Quasi quasi Roma sembrava Londra, almeno Parigi! C’era fermento, ottimismo, grandi speranze, anche se parecchi artisti erano un po’ scontenti, ma zitti, come è nella tradizione di questa città: lamentarsi, ma non farsi avanti per dire come stanno le cose. Ed è anche per questo che Giorgio de Finis, attuale curatore (non direttore, escamotage linguistico per dribblare le critiche di non aver fatto un concorso) oggi dirige il Macro, avendo dalla sua non solo il Comune grillino della Capitale, ma anche tanti artisti, o presunti tali e chi gli ruota intorno, per lo più incupiti e rancorosi per essere stati esclusi per anni dai salotti buoni, con alle spalle altrettanti anni di attesa e silenziosa militanza in quel sottobosco popolar-creativo, che ha dato una mano ai 5Stelle a Roma.
Ma torniamo agli anni zero di questo millennio. Rutelli, che sfida Alemanno, perde le elezioni. Al Macro si grida al disastro. Eccher tenta una resistenza, ma è inutile. Arrivano le truppe cammellate di Alemanno. In realtà arriva anche un assessore, che pur avendo un passato molto a destra, si è rivelato essere il migliore assessore alla cultura che Roma abbia mai avuto negli ultimi decenni: Umberto Croppi. Altro paradosso di questa storia. Però il Macro rimane senza direttore per quasi un anno, il che gli dà una solenne mazzata. Quasi ce lo dimentichiamo, nonostante ai romani costasse un tot non indifferente. Ad un certo punto lo sblocco: viene nominato Luca Massimo Barbero, e il museo riparte. Piace a molti, ma non a tutti. Il perché si deve ancora scrivere. Fatto sta che il direttore cui spetta di aprire il Macro nuovo di zecca con quell’Auditorium rosso fuoco che è il gioiello di Odile Decq, non ci rimane a lungo. Questioni di autonomia promessa e non data dalla Soprintendenza speciale di Roma, e altre beghe, qualcuna decisamente opaca. E a proposito di Amarcord, mi ricordo di una conferenza stampa, proprio in quell’Auditorium rosso fuoco, in cui Barbero annuncia le dimissioni con la voce incrinata. Non siamo in pochi, a Roma, ad incrinarci insieme a lui. Altri invece probabilmente brindano. La versione ufficiale è che Croppi, che lo aveva chiamato, viene fatto fuori e al suo posto arriva l’azzimato Dino Gasperini. E il museo si riblocca.
Macro Asilo
Che fare? Ci mobilitiamo. Nasce una stagione breve ma intensa. Nasce la Consulta per l’Arte Contemporanea Roma. Assemblee, dibattiti fiume, commissioni che si costituiscono per studiare come rapportarsi alle istituzioni e come superare il tutto creando una Fondazione, che sarà il sogno di almeno un anno e la presa in giro di altrettanto tempo che l’assessore Gasperini farà al Macro e ai romani. Tale è la paura dell’amministrazione Alemanno che al Macro possa succedere qualcosa nell’attesa di un nuovo direttore: Occupy Macro comincia a girare sempre più insistentemente, che in quattro e quattr’otto viene nominato Bartolomeo Pietromarchi, oggi direttore Arte del MAXXI. E il museo riparte. Mi ricordo di un vero botto in quella magnifica sala grande del Macro – la più grande sala espositiva d’Europa l’aveva annunciata con orgoglio Odile Decq – con la performance di Marcello Maloberti in cui una serie di performer colpisce e manda in frantumi decine di pantere in ceramica. Quanta accidenti di energia c’era in quel momento, urlai anch’io! Qualche anno dopo, quella stessa sala divisa da Pietromarchi in vari ambienti, ospiterà l’ultimo atto della sua gestione, una tristissima performance con il mago Silvan, vecchio e truccato, quasi una parodia del Macro di allora, sebbene il direttore vi avesse portato interessanti novità: oltre buone mostre, le residenze d’artisti. Ho cancellato il nome dell’autore della performance, tanto suonava a morto.
Pietromarchi fa la stessa fine di Eccher: mandato via per il cambio dell’amministrazione. E questo è il vero punto nodale del Macro: cambiano i vertici a Roma e cambia tutto. A voglia a petizioni per il mantenimento del direttore che per Pietromachi piovvero inutilmente a pioggia. Quel braccio di distanza dalla politica rimane un sogno di sapore anglosassone, il Macro è roba loro, di chi ci governa (o si presume debba fare questo) e nomina, alla faccia dell’autonomia e delle buone pratiche, chi caspita gli pare. A volte i direttori sono buoni, altre volte meno o altre volte affatto. Ma questa è la regola che vale ancora oggi: Luca Bergamo ha nominato Giorgio De Finis, che a Roma aveva creato il MAAM da un ex fabbrica occupata sulla Prenestina, e che è un suo ex compagno di scuola. La fondazione, strumento per garantire quel minimo di autonomia dalla politica, è una barzelletta che accompagna il Macro quasi fin dalla sua nascita e che nessun assessore, di destra, di sinistra o grillino, ha mai voluto o vuole fare sul serio, Croppi a parte.
Macro Asilo
Questa è la maledetta realtà di questo museo e della cultura a Roma. Perché le cose non cambiano quando al Campidoglio arriva Ignazio Marino, che appunto manda via Petromarchi, e all’assessorato alla cultura Flavia Barca, sciapa e ondivaga, che pare neanche parli col suo sindaco. A voglia a chiederle un incontro, ci vogliono mesi perché ci riceva, e comunque non ne esce fuori niente. Fino a che, con concorso pubblico, viene nominata Federica Pirani, già funzionario comunale e persona perbene che fa del suo meglio a fronte di un budget annuo di 250mila euro, roba da ridere se non fosse drammatico, come annuncia in conferenza stampa la neo assessore alla cultura, tosta e piddina di lungo corso, Giovanna Marinelli. Ma non è finita, per un cavillo burocratico, dopo poco più di un anno anche Pirani molla. Il Macro si ritrova acefalo, l’ordinaria amministrazione la tengono, per quel che possono, Costantino D’Orazio e Claudio Crescentini, mentre di soldi ne arrivano sempre meno.
E si arriva all’oggi, a Virginia Raggi, Luca Bergamo, Giorgio de Finis e il Macro che diventa Asilo (ma un nome meno scemo non lo potevano trovare?).
Macro Asilo, Giorgio De Finis e Michelangelo Pistoletto
30 settembre 2018 riapre il museo con una grande festa, un po’ di opere in giro senza l’ombra di una didascalia, parte della collezione allestita su una parete della sala grande, un po’ come una quadreria d’autore e un po’ come ha fatto Miuccia Prada nella sua fondazione, altri progetti (speciali? Difficile capirlo per l’assenza delle dida) sparsi qui e là, con il solito dj set musicale e tutta un’aria giovanilistica, precaria e improvvisata perché precaria. Tanti selfie, qualcuno ridicolmente vestito (forse un artista che non conosco?) che viene fotografato, qualcun altro buttato per terra che chiacchiera. Festa mobile, festa come se ne sono viste troppe.
Ma i giovani artisti, o quelli che si proclamano tali e per i quali è aperto l’Asilo, sono tanti. Si mettono fiduciosi in fila con i loro lavori, performance, talk o altro nel fitto calendario degli appuntamenti approntato dal Macro che ha un vertice molto rispettato e amato in Cesare Pietroiusti diventato presidente di PalaExpo, l’azienda sotto cui oggi sta lo sfigatissimo museo d’arte contemporanea (a dirlo purtroppo sono i fatti) della Capitale. Non si può sparare contro Cesare, che venerdì prossimo fa una performance di 11 ore della sua storia di artista anomalo. Non si può, perché che altro dovrebbe fare uno come lui? E perché è l’unica, pallida, garanzia dell’Asilo. In qualità di amministratore parla e ascolta tutti, tutti questi ragazzi e anche i vari vecchietti alla riscossa che finalmente hanno asilo nell’Asilo. Non ho niente contro di loro e gli faccio i migliori auguri. Penso tuttavia che, dopo il quarto d’ora di celebrità che la nostra società del post spettacolo non nega a nessuno, siano condannati all’oblio, appena de Finis se ne andrà e, con lui o dopo di lui, Raggi e Bergamo. Non solo perché, finita l’amministrazione grillina ne arriverà un’altra (quale? È impossibile immaginare oggi chi avrà il coraggio di accollarsi lo sfascio romano), che li farà fuori tutti e trasformerà l’Asilo in museo, in camere in affitto, come è già stato, o in altro ancora.
Macro Asilo
Temo che tutta questa gente che si mette in fila oggi non avrà futuro semplicemente perché l’Asilo non lavora come un museo dovrebbe fare: selezionando, progettando proprio il futuro degli artisti, stringendo relazioni vere con curatori, con altre analoghe strutture che non siano altrettanto scapigliate e, purtroppo, inconcludenti. Gli esempi all’estero cui ispirarsi non mancavano, ma forse i grillini a Roma dovevano mostrare uno muscolarità originale. E non che prima siano stati rose e fiori, per carità. So bene che l’Asilo di oggi è anche frutto di pratiche non inclusive del Macro passato e del sistema dell’arte. Che tutto questo nasce anche dall’odio contro la “casta” della quale qualcuno, hater o meno, mi può accusare di amicizia o connivenza. Fa parte del rischio, e dell’odio purtroppo. E so bene che per tenere a battesimo l’Asilo si sono scomodati alcuni padri nobili dell’arte italiana e non solo. E non commento. Voglio solo vedere se il tutto si risolverà nella solita passerella o se quella gente metterà la propria esperienza e capacità a servizio dell’Asilo. Se, insomma, da questa cosa un po’ scassata che è oggi un Asilo piantato nel centro (o quasi) di Roma, foraggiato economicamente e aperto a tutti, ne possa nascere un nuovo modello di museo.
Ne dubito, ma sono pronta a smentirmi.     
Adriana Polveroni

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  • Difficile essere smentiti se a cento anni da Richard Mutt e cinquanta dalla critica istituzionale si riesce ancora a credere all'espressionismo.
    Male che vada l'esperimento diventerà una performance "relazionale" di Pietroiusti.

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