LE TRE METÀ DEL CIELO |

di - 17 Gennaio 2008
Dispongo di alcuni punti di osservazione privilegiati da cui osservare l’aria che tira in Italia per la fotografia. Come altri miei colleghi, noto che l’afflusso verso le discipline di studio connesse al fotografico è costante e non risente di cali d’interesse. È anzi incredibile il numero e la curiosità degli studenti. Incredibile non perché appassionarsi alla fotografia sia strano -al contrario- ma perché il sistema culturale attorno al quale orbita la fotografia non è assolutamente tanto ricco e strutturato quanto in altri Paesi del mondo. Stiamo migliorando moltissimo, ma sia l’offerta espositiva che quella editoriale possono ben crescere in complessità. Ma torniamo a noi. La gente oggi ha a disposizione una fotocamera praticamente in ogni apparato microelettronico che acquista e, diversamente da un tempo, non deve scegliere se la fotografia le interessa: senza neanche volerlo chiunque è esposto quotidianamente a massicce e problematiche dosi di fotografia, punto. Si consuma, se possibile, ancora più immagine foto-videografica di quanta già non se ne mandasse giù negli anni ‘80 e ‘90. Basti pensare a Flickr e YouTube, e a tutti i prodotti di rete che prima non c’erano. Dall’altro capo del sistema, basti pensare agli irresistibili libri fotografici che Stephen Shore si autoproduce con un software standard della Apple. Insomma, c’è molto su cui riflettere.
Ora, questa presenza di fatto delle fotografie nella vita delle persone -dico fotografie e non Fotografia (come acutamente distingue il critico e curatore Filippo Maggia)- rende fatalmente curiosi su come diavolo funzioni davvero questa cosa, così spendibile e quotidiana eppure così arcana e seducente. Molti possono e intendono servirsene nel proprio privato, nel proprio lavoro, sul proprio blog o sui muri della propria casa. Altri vogliono andare a vedere le mostre e acquistare i libri già sapendo cosa farsene di quelle immagini. Non ci si arrende più all’idea che esse non smettono di arrivare (così almeno la mette Paul Virilio), e i mezzi di produzione non sono più così auratici da inchiodarci al ruolo di spettatori passivi di una société du spectacle. Non almeno in fotografia!

Le persone che si accostano alla fotografia sono di tanti tipi diversi: non per carattere o età, ma perché entrano nel fotografico da strade differenti, lo esplorano in modalità diversissime e ne fanno qualcosa di opposto gli uni dagli altri. L’esperienza mi parla di almeno tre tipologie, che ho voluto toccare personalmente sapendo che -dopo una pratica di lungo corso- mi avrebbero offerto, in cambio, una visione tridimensionale del mondo fotografico. Da una parte potrei porre quelli che frequentano i corsi di Storia della Fotografia all’università. Questi sono -diciamo- dei ricettori teorici della fotografia. Sono tanti, un numero pazzesco, con due conseguenze: l’entusiasmo adrenalinico nell’incontrarli e la difficoltà strutturale a formarli in maniera personalizzata. Comunque, questa categoria approccia multidisciplinarmente la fotografia, ma la osserva inserita in dipartimenti che, più che altro, hanno a che vedere con le arti. Gli studenti in questo caso integrano con le discipline semiotiche, filosofiche e storiche i nuclei di sapere della storia dell’arte e della culture visive; sono però tendenzialmente privi di un aggancio con i problemi e le priorità di ordine tecnico e professionale.

L’altra metà del cielo, ovviamente, conosce la fotografia perché di quella intende occuparsi per lavoro o per passione (ricordo a molti le domeniche spese da Giacomelli a stampare nel bagno: alla faccia del fotografo della domenica!). Se i precedenti erano ricettori teorici, questi diciamo che siano i produttori fattivi. Questa categoria intreccia meno di frequente la storia, la semiotica o la filosofia con le proprie complesse competenze creative e tecnico-pratiche. A poco serve loro sapere quanto è anche un’icona l’indice fotografico, se poi sbagliano i passe-partout con cui presentare il proprio portfolio! Il numero di questi ragazzi può variare, ma resta ingente. Tanti abbracciano la macchina piuttosto tardi, altri non ricordano quando gli è stata messa in mano; e io non vedo l’ora di osservare l’arrivo alla maturità della generazione digitaliana (era Ando Gilardi che palava di immagine digitalica per sottolinearne l’incompiuta pertinenza al mezzo, no?): voglio proprio vedere di cosa avranno fame.
Ora, prendete una fotografia qualunque. Questi due gruppi di appassionati -pur se di ampia varietà interna- la osserveranno quasi costantemente come fosse due cose completamente diverse (ci ho perfino scritto un saggetto, tanto è evidente il fenomeno). Gli occhi del produttore e del ricettore non possono incontrarsi “a studio” come avveniva per la critica militante in pittura nel Novecento. Sono ambiti di vita difformi, tempi e luoghi dell’esistere che si contrappongono, non solo diverse priorità interpretative. Vedo questa divaricazione nelle differenti risposte ai semplici elaborati che chiedo loro di realizzare per testarne e valutarne le competenze attive e passive, nell’approccio ai linguaggi fotografici.

Esistono però altre categorie, a metà tra le due che ho citato: un esempio potrebbe essere il pubblico che ho avuto nei corsi presso il dipartimento di Disegno Industriale. Lo sanno tutti: bei pezzi della storia della fotografia nel Novecento sono stati elaborati nel tentativo di rendere creativa la produzione e meccanica l’arte. Un’amplissima audience risponde ancora oggi a queste lezioni d’ibridazione. Per dire, sono in tanti a prendere la strada dell’Italian Design: quasi chiunque vuole farne parte. D’altro canto, è forse una delle tre voci all’attivo dell’esportazione nostrana. Detto questo, se ricettori e produttori sembrano vedere la fotografia dai due estremi, queste categorie di mezzo la vivono da utenti finalizzati. I punti di vista sul fotografico di utenti così estremi come un designer, un epidemiologo, un geografo, un medico legale o un arredatore, aprono questioni fondamentali sugli strumenti coi quali far approcciare loro la disciplina e sull’identità stessa della fotografia nelle mani di un mondo che può davvero farne ciò che vuole. Torno all’esempio: vista da dentro un’aula di Arti Industriali (che mai troppo contano come arti, ma devono sicuramente rispondere ad alcuni precetti della produzione) la fotografia ridiventa davvero l’ipnotica creatura metamorfica che è, ed è sempre stata. Cos’è la fotografia in mano a Ettore Sottsass? A Jean Baudrillard? O cos’è quella serie di immagini raccolte nel volume PhotoPoche Je ne suis pas photographe…, ritradotto da poco dalle edizioni Contrasto?

Come concludere? Con una riflessione che per estensione non è completamente una novità, ma si segnala per intensità. La dimensione tecnologico-teorico-pratica del mondo odierno rende infatti ancor più macroscopica la contemporanea complessità delle richieste, coralità delle pratiche, diffusa varietà dei saperi e delle nozioni. Tutto questo fa del fotografico, anche in Italia, un’esperienza formativa entusiasmante: sia per chi insegna (e nel frattempo non deve smettere di imparare), sia per chi apprende (e sta inventando modi sempre nuovi per applicare i dati delle proprie varie esperienze). E comunque per i pubblici, che devono aspettarsi da questi fermenti una nuova ondata di fenomeni culturali nel giro di pochi anni.

augusto pieroni


*articolo pubblicato in traduzione francese su Exibart.photo. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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