L’etica prima della forma

di - 9 Maggio 2012

L’arte può cambiare il mondo! Questa che oggi diamo come affermazione, nel 1993 aveva la forma di una domanda. La pose Jeffrey Deitch come questione sulla quale riflettere nel suo progetto per Aperto 93 della XLV edizione della Biennale di Venezia. Sono passati diciannove anni da quella mostra e molto è cambiato sia del mondo sia dell’arte. Ma soprattutto è cambiata la relazione che c’è tra arte e mondo e naturalmente anche quella che misuriamo tra arte e vita. Quello che il pubblico, le persone, noi tutti ci attendiamo dall’opera d’arte oggi, non ha più nulla di quella funzione di riqualificazione del nostro ambiente attraverso proprietà e categorie estetiche. In un mondo in cui l’estetizzazione ha assunto un carattere pervasivo, l’idea di bello e di ciò che non lo è viene quotidianamente ricondotta a necessità e funzioni che sono soddisfatte da immagini e prodotti in teoria reperibili con facilità. Ma se è così, come lo è, cosa ci attendiamo allora dall’arte? Che continui ad indicare la direzione verso cui andare per cambiare noi stessi e il mondo in cui siamo. E se non è più la bellezza – antica, moderna o post – il modo e il fine dell’arte, è sempre più chiaro che questi sono costituiti dalla ricerca di verità che coincide con l’idea di bene. Del resto proprio questa era una riflessione già adottata a suo tempo da Aristotele nel VI libro della sua Etica Nicomachea: “[…] e poiché non c’è nessun’arte che non sia una disposizione ragionata alla produzione, e non c’è nessuna disposizione ragionata alla produzione che non sia un’arte, arte sarà lo stesso che “disposizione ragionata secondo verità alla produzione”. […]”.

Certo definire oggi la verità e il bene che da essa si può desumere, è più di una questione complessa. Come non meno complesso è individuare quel noi che verità e bene sottendono. Ma proprio verità, bene e noi, sono gli elementi decisivi che presiedono alla formazione dell’opera d’arte oggi. Un’elaborazione e successiva affermazione che non ha più lo scopo di fornire un modello di percezione alternativo della realtà. L’opera d’arte oggi prende infatti direttamente posto nella realtà, e in questo posizionarsi crea un perturbamento della stessa, assumendo per forza di cose un carattere e una funzione etica che ne precede e ne condiziona la stessa forma. In altre parole il suo essere parte della realtà, anzi il cambiamento che impone con la sua presenza, istituisce nello statuto dell’arte una funzione sociale che è, per dirla con Theodor W. Adorno, quella di essere contro: “[…] l’arte era sì in sé in contraddizione con il dominio sociale e il suo prolungamento nei mores, non però per sé.” (Ästetische Theorie, 1970). Ogni volta questa contrapposizione è infatti inscritta in una dimensione di relazione e contrattazione con quello stesso controllore sociale, “l’amministratore” così com’è definito da Adorno stesso, da cui l’arte si riconosce comunque e sempre come entità autonoma.

L’etica prima della forma è un progetto che inizia un percorso di ricerca che prende il via proprio da queste riflessioni. In un momento storico nel quale i piani in cui si articolano le diverse realtà, tra le quali ci muoviamo e agiamo senza soluzione di continuità, si sono saldati producendo conseguenze dirette sul disvelamento stesso della verità, del bene conseguente e del noi cui si riferisce, l’arte non deve domandarsi ad esempio se può far cessare una guerra, ma deve dimostrare che è consapevole che in lei ci sono gli elementi che possono impedire l’inizio di qualsiasi guerra. Dall’oriente all’occidente, dal nord al sud del pianeta, gli effetti di un impegno etico a favore del bene, richiesto all’azione politica, sono diventati indifferibili. Ma è sempre più chiaro che l’azione politica non è ormai separabile dalla consapevolezza dell’attuale complessità dell’uomo, che è conseguenza della completa e matura assunzione di essere un’identità al contempo individuale e collettiva. Uno stato che per la verità l’opera d’arte da sempre ci ha rimandato, prima come rappresentazione da osservare, e oggi come presenza con la quale convivere.

La sensazione sempre più chiara è che oggi siamo nella fase finale della transizione che ci ha impegnati per almeno tutto l’ultimo quarto del Novecento e che, dopo le rotture e le conclusioni di fine secolo scorso e inizio millennio nuovo, si sia innescata la diffusa consapevolezza che così come le cose erano state non sarebbero più potute essere. Non secondariamente il tutto sta avvenendo sotto la spinta di un’accelerazione senza precedenti. Un processo cui sono del tutto pertinenti le domande che gli artisti hanno cominciato a farsi e a fare attraverso le loro opere e che anche se non hanno quasi mai trovato immediata risposta, sono state la principale causa di ipotesi diverse da quello che era il dato disponibile a prima vista. Ed esattamente in questo senso si pongono le domande che Marinella Senatore rivolge ai minatori e alla gente di Enna, quelle che Valerio Rocco Orlando pone ai ragazzi delle scuole di Roma, così come quelle con le quali Flavio Favelli interroga la sua e la nostra memoria attraverso materiali e oggetti che riempiono il nostro quotidiano. Ma ci sono anche le domande dalle quali nascono dei suoni, grazie ai quali Piero Mottola esplora stati emotivi non altrimenti esperibili, e nondimeno quelle che Giuseppe Stampone spedisce ai politici italiani e ai potenti del mondo, incalzandoli sull’abbandono colpevole di una città sfregiata dal terremoto cui era stato appunto promesso il bene.

Perché alle domande non si può non rispondere per sempre. Non è mai successo nella Storia.

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