06 febbraio 2015

L’incubo del ritorno della Goldin Age

 
Da qualche settimana a Treviso c'è baruffa nell'aria. La ridente cittadina veneta si ribella alla Linea d’Ombra. Ma cosa è successo veramente? Magari sono fatti che ci riguardano tutti

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I fatti
Ve la faccio breve, o almeno ci provo. Marco Goldin, il re dei mostrogeni, torna a casa, a Treviso, dopo la brusca rottura dell’idillio con la Fondazione Cassamarca e Dino de Poli nel 2003. È un ritorno fortemente voluto da tempo da alcune categorie di cittadini, nella speranza di superare un periodo di stagnazione economica e rivitalizzare i flussi turistici, ed è stato un punto della campagna elettorale dell’attuale Sindaco Giovanni Manildo. (nella foto)
La delibera
Tutto a posto, se non fosse che il 19 dicembre 2014 viene approvata in Comune una delibera (sembra all’oscuro di una stessa parte della maggioranza) con cui il Comune prende accordi con la società goldiniana “Linea d’Ombra” per preparare il Museo di Santa Caterina ad accogliere la classica mostra monster di Goldin per il 2015, e dunque flussi giubileari di visitatori (degli ultimi giorni la polemica nella polemica sul numero atteso di 150mila visitatori al mese, ovvero 5mila al giorno). Si tratta dunque di fare forti lavori di adeguamento alle normative europee di sicurezza, illuminazione, climatizzazione, eccetera eccetera.
“Ottimo!” direte voi
Finalmente fondi, in gran parte privati, destinati alla ristrutturazione di un complesso museale eccezionale (basti pensare agli affreschi di Sant’Orsola di Tommaso da Modena, o alla collezione di sculture di Arturo Martini) che già da tempo aspettava lavori di restauro e ammodernamento. E invece no! Perché l’adeguamento interesserebbe solo alcuni ambienti, per l’appunto destinati alle esposizioni temporanee di “Linea d’Ombra”. Perché è stato scelto per seguire i lavori l’allestitore di fiducia di Goldin, Edoardo Gherardi. Perché pare che i fondi privati siano solo una piccola parte del milione e 250mila euro previsti.
Complesso di Santa Caterina, Treviso
La lettera aperta
Nel frattempo, sentito un vago odore di bruciato, alcuni cittadini iniziano a muoversi per capire cosa succede, si fanno comitato (Museo di Santa Caterina Bene Comune), e il 14 gennaio 2015 indirizzano una lettera aperta al Sindaco con sette domande, che potete leggere qui, tribunatreviso.gelocal.it/treviso/cronaca/2015/01/15/news/museo-di-treviso-i-sette-punti-che-non-tornano-1.10672186?ref=search
Chiedendo, in sintesi, luci sui particolari dell’assegnazione dei lavori, su come la fruizione degli ambienti e della collezione sarebbe modificata, sulla politica culturale del Comune a lungo termine e altre cosucce così.
La difesa del Sindaco a colpi di indotto
La linea di difesa del Sindaco prende ufficialmente forma con un ritardo consistente nella risposta di questi ultimi giorni, ove si ribatte punto per punto (più o meno) alla lettera aperta. Il Sindaco pone l’accento ovviamente sull’indotto economico di cui tutta la città e comuni limitrofi (la “Grande Treviso”) potrebbero giovare. Ma anche sul presunto rilancio culturale della città, e del museo, che ne deriverebbe dopo anni di emorragie nei flussi dei visitatori.
Sottolinea la parte di investimenti privati raccolti grazie all’Art Bonus di Franceschini (180mila euro più 175mila promessi sulla carta) e i 720mila che presumibilmente si avranno con contributo della Regione Veneto. Rassicura sulla piena operabilità degli spazi del museo non oggetto dei lavori e sulla destinazione delle opere rimosse, che finiranno al Museo Bailo, restaurato e riaperto per l’occasione (pare che comunque i tre quarti delle opere del Novecento che saranno spostate, fossero originariamente proprio al Bailo).
Manca però un piano solido di politica culturale, al di là dei richiami di folle oceaniche per una mostra. Ma poi, magari, da cosa nasce cosa.
Complesso di Santa Caterina, Treviso
Ma allora qual è il problema?
Il problema non è condividere o meno la visione dell’arte e della sua diffusione che ha Goldin, o meglio, che lui rappresenta (e sicuramente non la condividiamo). Ma prima di questo, il problema è che si investono dei soldi non per restaurare un complesso museale, per tutelarne e promuoverne la collezione in Italia e all’estero, e progettando un piano di rilancio generale e ben calendarizzato a lungo termine, ma per ricavare in quel posto un ambiente (tra l’altro privilegiato e distinto dal resto del museo che sembrerebbe invece non usufruire degli stessi vantaggi di ammodernamento tecnico) adatto ad accogliere mostre di grande richiamo, isolate dal resto del tessuto culturale locale. Mostre intorno alle quali girano molti interessi privati i cui benefici non è certo che ricadano anche sui musei pubblici, anche se si dà per scontato.
Questo conferma i dubbi esposti nel documento dell’ICOM del 2008 (http://www.icom-italia.org/images/documenti/mostre%20vs%20musei.pdf), posto all’attenzione ultimamente dal comitato Museo Santa Caterina Bene Comune in cui non tanto si condannano in sé le mostre evento spacca-botteghini (in certi casi anche utili), quanto se ne paventano gli effetti dannosi sui musei locali, e non un effetto positivo di riflesso post-mostra.
Rendering del progetto per il Museo Bailo a Treviso
Sei punti e sei raccomandazioni, che nella vicenda trevigiana sembra si sia fatto a gara a disattendere. Ad esempio, le fondazioni dovrebbero separare finanziamenti agli eventi effimeri e alle istituzioni museali fisse, visto il loro ruolo fondamentale sul lungo termine per non impoverire le generazioni future. Le mostre dovrebbero essere comunque essere organizzate con il contributo scientifico dei musei locali, e offrire un quid di originalità.
Il rischio, condiviso anche da quelli che nel documento sono definiti i «musei-spettacolo», è infatti «quello di produrre attorno ad esse la desertificazione culturale, ovvero la perdita di una risorsa fondamentale qual è la diversità», con conseguente «cessazione delle attività di elaborazione e produzione culturale da parte dei musei».
L’ICOM poi, auspica l’uso di strumenti complessi di monitoraggio e analisi dei dati finanziari e di affluenza dei musei (prima e dopo gli eventi) come i Balanced Scorecards (BSC), onde far chiarezza sulla questione dell’indotto una volta per tutte (sembra infatti che a Brescia e a Treviso, e ultimamente a Vicenza, gli afflussi nei musei locali calino con le grandi mostre).
Fa rabbrividire infine la profeticità dell’allerta contro i rischi che le mostre temporanee lascino danni collaterali nei musei ospitanti: le strutture funzionali alle mostre costruite sacrificando collezioni, il depauperamento delle istituzioni locali e l’allontanamento dei donatori. L’esempio portato? Treviso, nella prima era post-Goldin.
Solo un pretesto
Il caso Treviso è solo un pretesto (il sindaco alla fine cerca solo di far crescere la sua città, in buona fede) per iniziare a riflettere su qualche problemino cronico che ci portiamo dietro nel nostro approccio ai beni culturali, e non solo. Perché si sceglie sempre l’intrattenimento anziché la formazione culturale per cui sono nati i musei? E soprattutto: perché il paese che pare abbia oltre il 60 per cento del patrimonio culturale esistente al mondo ha un rapporto così difficile e così poco sano coi propri beni culturali?
P.S. per chi volesse sapere tutto, ma proprio tutto, sulla faccenda Treviso andate a vedere la pagina Facebook di “Museo Santa Caterina Bene Comune”.
Mario Finazzi

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