Londra, oltre Frieze

di - 18 Ottobre 2013
Come in tutte le fiere che si rispettino, il mercato (che vada bene o meno) è messo in sicurezza da una rete di proposte di alto livello. Anche se soffia un’aria un po’ di crisi, quest’anno Londra non delude e sfodera una mostra meglio dell’altra, tanto per dire di musei che fanno sistema intorno alla fiera. E le gallerie, che magari sono pure presenti a Regent’s park, nelle loro sedi in città non stanno con le mani in mano.
Questo che vi proponiamo è un parziale tour per il week end dell’arte londinese (tutto è veramente impossibile!), con tempo variabile, ma non freddo (già è una buona notizia) in una città dove la mobilità, gli spostamenti seppure faticosi (quanto è lontana, per fortuna, l’Italia!) sono possibili. E dove, oltre lo scintillio del fantastico mondo dell’arte contemporanea si discute criticamente di questo, non solo i talks di Frieze o le fiere parallele dove il mercato dell’arte è parzialmente messo in questione, anche in articoli e interventi che si sono succeduti nelle ultime settimane.
Ma veniamo al tour e cominciamo dalla Tate Modern, quest’anno un po’ sottotono, orfana dell’Unilever project: la grande installazione che riempiva l’atrio affidata ogni anno ad un artista diverso. L’ex centrale elettrica che domina lo skyland del Southbank punta sul sicuro: Paul Klee. Riuniti dalla collezioni di tutto il mondo, ecco disegni, acquarelli leggeri, dipinti come solo lui li sapeva fare e appunti dell’artista svizzero, nella mostra più ampia che l’Inghilterra ricordi su Klee che copre trent’anni di carriera, dagli anni ’10 del ‘900 all’insegnamento al Bauhaus fino alla scomparsa, nel 1940. Ma se per caso siete già stati a Berna al museo Klee, potete anche saltarla. A meno di non avere una straordinaria passione per l’artista.
Proseguendo nel Southwark verso il centro, il massiccio cubo di cemento della Hayward Gallery riserva come al solito belle sorprese. La mostra “Traces” di Ana Mendieta sembra essere decisamente la retrospettiva più ricca e approfondita dell’artista cubana (in grande riscoperta) vista negli ultimi anni. Oltre a un massiccio corpo di lavori (foto, video, sculture e dipinti, molti dei quali col sangue e tempera), all’ingresso è presentato uno slide show di opere che Mendieta aveva deciso di far circolare. Scelta molto pertinente per un museo che non si abbandona alle facili autorizzazioni che gli artisti in voga sollecitano. Lo stesso museo, però, sorvola un po’ troppo sulla tragica fine dell’artista, omettendo la scheda biografica nel bel catalogo e citando solo una volta nei documenti presenti che Mendieta muore cadendo dal 34° piano di un edificio di Manhattan mentre in casa era il marito, “l’artista Andre” (omettendo anche il nome: Carl Andre). È nota la prudenza che in tutti questi anni ha accompagnato la vicenda e l’appoggio di cui ha beneficiato Carl Andre (indagato e poi assolto dall’accusa di omicidio) da parte del sistema dell’arte internazionale. Hayward Gallery evidentemente non è da meno.
Nello stesso museo, al piano superiore, c’è la bella mostra, “Go away closer”, splendidamente allestita in librerie, armadi e teche della fotografa indiana Dayanitha Singh. Immagini in bianco nero, divise per paesaggi domestici, urbani, persone, ritratti e oggetti raccontano un po’ di india contemporanea.
Tappa d’obbligo al Victoria & Albert Museum. Non solo perché, come sostiene Paola Tognon, è «forse il più bel museo di Londra, con tutti gli originali delle arti applicate mentre altrove circolano copie», anche se una volta dentro si rischia di perdercisi e trovare la cosa che si vuole vedere è quasi una mission impossible. La ragione per andare al V&A, deviando magari dalla Serpentine Gallery di cui vi abbiamo già parlato (mostre di Marisa Merz e Adrian Villar Rojas, padiglione esterno del giovane architetto giapponese Sou Fujimoto) è che ospita il progetto “Tomorrow” del fantastico duo danese Elmgreen & Dragset (presente anche allo Sculpture Park di Frieze con un’installazione ovviamente molto intelligente). Unica raccomandazione: evitate momenti di maggiore affollamento. Saltate, se ci fossero, le visite guidate. Fatevi la vostra storia, insomma. Da soli e in pace per assaporare in pieno questo bel progetto che, prendendo spunto dal fallimento finanziario ed esistenziale dell’anziano e disilluso architetto Norman Swann, mette in scena la casa di questo, prendendo in prestito oggetti della sua collezione, di quella del Victoria & Albert museum e mettendoci qualcosa della propria (Elmgreen & Dragset). Il risultato che, certo, riecheggia il Padiglione dei Paesi Nordici della Biennale di quattro anni fa (come sottolinea più volte Paola Tognon) è uno straordinario allestimento, curato con precisione maniacale, ma anche visibile partecipazione affettiva alla storia dell’architetto Swann.
Con alcune chicche: maggiordomi veri e finti che si confondono, foto (dal gusto molto gay) e libri che si mischiano tra antichi e più moderni, un comodissimo (all’apparenza) letto sfatto dove ci si butterebbe volentieri per riprendersi dalla faticata del grand tour londinese.
Altra tappa da non mancare è la lontana Whitechapel che quest’anno mette in campo una personale di Sarah Lucas, ex YBA rimasta fedele a certe tematiche critiche del gruppo (è stata una delle prime ad essere invitata alla mostra Freeze che Damien Hirst fece con i suoi compagni di studi) ma soprattutto a quel suo modo sghembo di affrontarle. Le sue sculture e installazioni enigmatiche, di un erotismo malato, che qualcuno interpreta come critica femminista al sistema dell’arte e al nostro mondo, hanno ancora forte appeal e, sebbene mostrino una “cifra Lucas”, sono capaci di rinnovarsi. Oggi, con l’ultima consacrazione (“Situation” il titolo della mostra) a Whitechapel, Sarah Lucas sembra incarnare uno dei punti di vista fermi e consapevoli con cui Londra assiste al suo grande luna park dell’arte (Frieze & Co.) sul cui senso la città si è lungamente interrogata nelle ultime settimane.
Niente di che, invece, per un’altra interprete dell’arte critica post colonialista e femminista: Kara Walker al Camden Center non convince più di tanto. Mentre niente male è il cinese Zhang Enli all’ICA.  La sua stanza dipinta presentata al piano terra è intensa e avvolgente come la sua pittura. Interessanti anche le due installazioni (piano terra e primo piano, ma qui più confusa) di Lutz Bacher, californiana di Berkley. Ultimo suggerimento per i musei, fuori dal contemporaneo: per chi avesse tempo, pare non siano da mancare (raccolgo a mia volta i consigli fidati, visto che non ci sono stata) “Shunga: Sex and Pleasue in Japanese Art, 1600-1900” al British Museum. Mentre al Royal Acadeny of Arts è di scena l’Australia, con una ricca antologica.
Fermiamoci con i musei e passiamo rapidamente a qualche galleria visitata.  
     
Da White Cube c’è Haim Steinbach, recentemente visto anche a Milano, da Lia Rumma, oltre a una collezione di installazioni di Theaster Gates. La Frith Street Gallery ospita Tacita Dean (una certezza). Lisson Gallery schiera invece Tatsuo Miyajima (un’altra certezza). Maureen Paley, un po’ lontana, non è da perdere se amate Wolfgang Tillmans. Altra scarpinata per raggiungere Victoria Miro Gallery a Wharf Road per vedere Idris Khan e Adriana Varejo. Da saltare, invece, la sede a Mayfair che ospita un’altra serie di “punti” di Yayoi Kusama. Da Bischoff/Weiss una serie di nuovi lavori di Ali Silverstein, alla sua terza personale in galleria, con sette grandi tele dove abbondano strisce di nappa, e interventi materici sulla pittura, lasciando lo spettatore solo ad indagare una pittura degli ultimi giorni, non sempre di facile comprensione.
Dulcis in fundo Blain/Southern, che nell’affollatissimo opening di martedì sera ha presentato “Candy”, una mostra che riunisce il lavoro di due big: Felix Gonzalez-Torres e Damien Hirst. Di questo sono presentati per la prima volta i dipinti della serie Candy, con il contrappunto di due grandi installazioni romantiche, politiche, polemiche ed inesauribili, nel vero senso della parola, di Gonzalez-Torres, nato a Porto Rico ma adottato dalla Grande Mela, dove è scomparso nel 1996, che qui si rivela nei suoi Untitled agli angoli, lasciando al pubblico una o una manciata di caramelle colorate. Simbolo della scomparsa della concezione “monolitica” della forma dell’arte e dell’amore.
Ultima nota più free tra dozzine di volti noti, la mostra allestita all’ultimo piano della Saatchi Gallery con un po’ di talenti emergenti britannici (non male) e il Premio Parasol, che ha raccolto in questa quinta edizione tre laureati al Goldsmith College: Nicole Buning, Scarlett Lingwood e Luana Duvoisin Zanchi. L’opening è domani,  19 ottobre, al Parasol unit foundation for contemporary art, mentre gli under 89 di Obrist e Sandretto, come vi abbiamo raccontato, arriveranno a Torino, per Artissima.
E visto che siamo in zona Italia, chiudiamo segnalando gli artisti nostrani presenti in questi giorni a Londra: Enrica Borghi all’Estorick Collection, Patrizio di Massimo da Gasworks, Margherita Manzelli da Greengrassi.

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