L’immagine è quella di un cecchino che spara i suoi colpi più o meno a vuoto; tutto sta nello schivarli. È la difesa che stanno portando avanti in queste settimane realtà come Civita e Federculture che rischiano di veder sfumare la fitta rete di interessi tra pubblico e privato di cui sono garanti e portavoci; un tessuto di relazioni costruito nel tempo e, c’è da dire, in stato di necessità, quando comuni ed enti hanno dovuto escogitare forme alternative di sostentamento in fatto di cultura. Ci si riferisce a fondazioni, aziende speciali e associazioni che dal primo gennaio del 2013 rischiano di veder annullati i contributi pubblici, secondo quanto previsto dal D.l. n. 95 (art. 4, comma 6), sostituendoli con l’acquisto diretto di servizi da parte del pubblico; ciò significherà il passaggio da una situazione di mutua assistenza, qual è quella attuale, al balletto di società di pubblici servizi, cooperative e subappalti. I motivi? Conformità alle normative comunitarie e libera concorrenza del mercato.
Nel tentativo di schivare i colpi, la prima a scendere in campo è stata Civita, in un’assemblea pubblica al MAXXI il 18 luglio scorso, il museo peraltro sei giorni prima si era già fatto promotore di un seminario per studiare le norme che consentono la detrazione delle imposte per chi, imprese e privati, investe in cultura. All’ultimo appuntamento ha preso parte lo stesso ministro per lo Sviluppo Economico, Corrado Passera.
Equiparare la spesa culturale a qualsiasi altra voce di bilancio, senza affrontarla nella sua specificità, preoccupa più dei tagli, poiché in questo modo le sue criticità vengono meno. Sul disegno legislativo che potrebbe sancire, di fatto, la fine dell’esperienza delle fondazioni ha preso posizione anche Albino Ruberti, Segretario Generale dell’Associazione Civita, palesemente scettico sulle conseguenze del provvedimento: «L’alternativa è secca: o la totale gestione dei servizi, come era venti anni fa, oppure la loro cessione a soggetti privati. Ma non credo che esista oggi un tessuto economico capace di sostituirsi alla compartecipazione tra pubblico e privato, come l’azienda speciale Palaexpo di Roma o la rete Musei Civici di Torino».
Federculture non rimane con le mani in mano e dà appuntamento al 24 luglio con un’assemblea al Palazzo delle Esposizioni per presentare i suoi emendamenti cche tendono a cancellare la norma anche per i soggetti impiegati nella valorizzazione del patrimonio culturale, mentre ora è prevista solo per istituzioni che si occupano di sviluppo tecnologico.
Strali anche contro il mantenimento del decreto n. 78/2010 (poi convertito in legge 122), che prevede un tetto del 20% di spesa per le istituzioni in mostre ed eventi culturali: «norma incomprensibile – sottolinea Ruberti – basti pensare all’indotto economico di centri come Torino e Perugia che negli ultimi anni hanno più di tutti investito in cultura».
Nel frattempo Corrado Passera sembra aver compreso l’importanza del settore dei beni culturali come leva di sviluppo: «un mondo sempre più globalizzato, vince chi ha una riconoscibilità forte e da questo punto di vista il patrimonio e l’industria culturale italiana fondano la sua identità», ha detto nell’incontro del MAXXI. Secondo il ministro l’errore degli ultimi anni è stata la divisione tra valorizzazione e tutela, quando invece la via maestra è creare meccanismi dove i due momenti possano interagire. «Si parla di collaborazione tra pubblico e privato si accenna a elementi marginali come la gestione di bookshop e caffetterie. Invece dobbiamo capire meglio quali tipi di contenitori possano creare grandi cose, siano pure fondazioni o società di scopo, ma devono operare attivamente sin dal principio», prosegue il ministro dalle cui parole traspare tuttavia buona parte della più grande politica del governo di cui è rappresentante: la concentrazione di risorse. La filosofia è la stessa che sta portando alla chiusura degli ospedali di periferia: se in Italia esistono centinaia di festival e manifestazioni, occorre contingentare risorse, garantire visibilità a un numero limitato e farne bene esportabile. Contro questa frammentazione si è pronunciato Gianni Letta, Presidente Civita, che parla invece dell’Italia come di un “museo diffuso”, formula abusata quanto poco incisiva, che implica la salvaguardia del pesce piccolo così come del più grande. Senza, alla fine, scegliere veramente.
Quali sono in sostanza le proposte avanzate dai rappresentanti del settore produttivo italiano? Da questo punto di vista il comitato “Comunicare Cultura”, un tavolo di lavoro offerto da Civita al ministro Passera, presenta una mappatura delle strategie da adottare: la prima riguarda il filantropismo, allo stato attuale fin troppo fumoso. La proposta delle imprese è invece quella di legare le donazioni alla pubblicità, obbligando l’ente sponsorizzato a promuovere l’azienda che offre risorse. Ma qui sorge un problema di ordine normativo: cambiare la natura giuridica di soggetti pubblici e associazioni no profit che allo stato attuale, a causa di norme poco conosciute e poco trasparenti, pastoie burocratiche e altri intralci, hanno parecchie difficoltà a fatturare i loro interventi a favore delle cultura. Altra criticità quella dei concorsi per la selezione degli sponsor, che andrebbero rivisti ed estesi non solo ai grandi cantieri di restauro, ma a una più ampia gamma di interventi culturali.
La pressione fiscale è da sempre tra le urgenze, quella più scottante è la detassazione delle risorse investite in cultura da parte di imprese: una boccata d’ossigeno per una nuova idea di filantropismo, così come l’introduzione di una tariffa Iva agevolata per interventi di recupero di immobili di rilievo storico-artistico.
Gli ultimi due punti riguardano iniziative che, se attuate, potrebbero garantire un aumento della liquidità nelle casse dei musei italiani, prospettiva cui guarda con interesse proprio il MAXXI: la prima è la proposta di estendere una percentuale dell’imposta di soggiorno (applicata ormai da quasi tutte le città d’arte italiane), ai “grandi attrattori” ossia monumenti, musei e siti archeologici.
La seconda è forse la più antica strategia di fund raising esistente, l’intervento generalizzato sulle tariffe. «In tempi come questi non possiamo più permetterci 19 gratuità», tuonano ancora da Civita. Secondo le stime dell’associazione l’aumento di un solo euro sul biglietto porterebbe 20 milioni di euro in più ogni anno. La proposta, partita pochi giorni fa dai Musei civici bolognesi, e già operativa, rischia di estendersi a tutti i musei italiani. Ma è davvero questa è la soluzione? Sembra quasi che alla fine il bene culturale sia diventato l’angolo da cui osservare la politica con la P maiuscola (che muove i soldi sul serio), visto il suo progressivo allineamento alle soluzioni dei piani alti: più tasse, prezzi più alti. Che almeno serva a qualcosa. Perché “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”, articolo 9 della Costituzione, letto oggi sembra una favola d’altri tempi. Quelli “moderni” chiamano in causa il mercato poiché si sa, “il prezzo è una delle componenti di ogni strategia di marketing”. Dove però il marketing è invocato non per promuovere sviluppo, come nella migliore tradizione liberista, ma per mantenere questa stagnante sussistenza. La domanda è, fino a quando?