Ad esempio, vi diranno che Inception è un film di
fantascienza:
è vero, ma è talmente riduttivo
che è come dire che
Cattelan è uno scultore. I fan di Nolan,
quella ristretta cerchia per cui Nolan segna una generazione con l’immagine di
Guy Pearce che si sveglia ogni mattina nella stessa stanza dell’Icann Motel (Memento, 2000), quelli per
i quali i due Batman (e un terzo in
lavorazione
che è stato rimandato
proprio per permettere a Nolan di finire Inception) sono solo la
pagnotta necessaria per accontentare i produttori e Insomnia l’indispensabile
incontro-scontro col mercato, saranno invece felici di aver ritrovato il loro autore
cavalcare senza compromessi una produzione di ben 120 milioni di euro
(recuperati,
comunque,
nelle prime due settimane di programmazione).
Nolan è
l’erede di
David Lynch, il maestro dell’uncanny, del
non-familiare, del mondo “altro”, perverso, pazzesco… ma rispetto al maestro possiede la dote di restituirci
questo mondo privo di coordinate con una macchina narrativa altrettanto
intricata, ma consistente
e più spettacolare di
quella lynchiana.
David Lynch è Photoshop, mentre Nolan è a suo agio con
Premiere. Se Lynch ci mette a
tu per tu con l’inconscio, lasciandoci a volte in una condizione di splendida ammirazione, Nolan ci rimette in
gioco come se guardassimo al ralenti l’esperienza di qualcun altro con il forte
sospetto che si tratti di noi stessi. David Lynch resterà per sempre “poetico”, un
artista prestato al cinema, Christopher Nolan trae la sua forza dal racconto. Per Lynch non è importante che
tutto sia spiegabile, una zona d’ombra è bene che resti oscura, per Nolan una zona d’ombra è un’area di propulsione che prima o poi tornerà all’interno della
storia; questo è il
motivo per cui alcuni citano Stanley Kubrick tra le influenze del regista inglese, mentre l’altro maestro nel creare
situazioni che ampliano la trama è senz’altro Hitchcock (Michael Caine durante le riprese di The Prestige: “Nolan mi
ricorda Alfred Hitchcock nel modo in cui riesce a creare dei bei momenti di
suspense”).
Quella
delle influenze è
comunque una dinamica sulla quale il regista ama giocare: ad esempio,
guardando Inception la prima volta ho avuto qualche problema a liberarmi dall’effetto Matrix nella
prima parte del film (lo slittamento tra dimensione del sogno e la realtà, tra realtà e softwareality, per poi scoprire
che in effetti Nolan ammira quanto fatto dai Wachowski perché
dimostra come il pubblico sia pronto ad affrontare tematiche complesse quando sono
presentate in maniera
interessante:
“È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi
per nasconderti la verità“). Da Michael Mann deriva certamente la ricerca di location reali
che costringe i collaboratori di Nolan a girarsi mezzo mondo (questo film è stato girato in Giappone,
Inghilterra, Francia, Marocco, Stati Uniti e Canada) per trovare “il posto
giusto”. E infine, naturalmente, Mr. Scott di Blade Runner con la
sua capacità di denunciare allo
spettatore la
possibilità di un’umanità diversa o la dimensione
familiare che domina la Nostromo e che colpì
il pubblico alla visione del primo Alien. La
dedizione di Di Caprio al ricordo della moglie che incontra solo in fase
onirica è un rimando forse troppo diretto al
personaggio di
Hari nel Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij.
Inception è il progetto di una
vita, quello con il quale Nolan (che liquida i giornalisti dicendo che si tratta di un
“thriller di
fantascienza ambientato nell’architettura della mente“) riesce a “innescare” la storia di
un ladro di
sogni in un
complesso alternarsi tra sogno e realtà
durante il quale i personaggi provano l’esperienza del sogno condiviso. Di Caprio è meno ingenuo che
in Shutter Island, più in sintonia con il
cast che Nolan ha messo insieme; anzi, questo suo mostrarsi continuamente accigliato
corrisponde bene al tipico personaggio alla Nolan, preoccupato da tensioni
interne, dal fare i conti con emozioni e ricordi, sempre sull’orlo di una crisi
di nervi. Nel
corso del film il sogno prende il sopravvento e da spettatore non ve ne potrà importare di meno della realtà, anzi vi troverete
d’accordo con Tom Berenger che a un certo punto dice: “You mustn’t be afraid to dream a little bigger darlin“.
gianni romano
critico d’arte ed editore di postmediabooks
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 69. Te l’eri perso? � ��Abbonati!�
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