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LUMINARIE MENEGHINE
Politica e opinioni
di alessandro ronchi
“Milano sempre pronta a Natale, che quando passa piange e ci rimane male”, cantava Lucio Dalla in un canzone-ritratto, per accumulo di pennellate, dello spirito meneghino. Anche quest’anno i milanesi, terrorizzati dal rischio di veder fuggire il Natale senza aver compiuto qualche gesto eclatante, hanno rispettato la reputazione di gente “mai con le mani in mano”. Veloce disamina delle luminarie natalizie in città, leggendoci dentro qualcos'altro...
“Milano sempre pronta a Natale, che quando passa piange e ci rimane male”, cantava Lucio Dalla in un canzone-ritratto, per accumulo di pennellate, dello spirito meneghino. Anche quest’anno i milanesi, terrorizzati dal rischio di veder fuggire il Natale senza aver compiuto qualche gesto eclatante, hanno rispettato la reputazione di gente “mai con le mani in mano”. Veloce disamina delle luminarie natalizie in città, leggendoci dentro qualcos'altro...
milanese all’arredo, al decoro e al verde urbano, Maurizio Cadeo, nell’indire
il LED Festival (concorrente o
complementare alle tradizionali luminarie natalizie offerte dai commercianti?),
ha prestato il volto e la massima “Milano
illuminata di nuova luce e di antichi valori” a una massiccia campagna di affiche.
Fermiamoci sulla semantica,
poiché ogni slogan è, per definizione, una “nana bianca” della semiosi, un
condensato di comunicazione a più strati. La dialettica antico/moderno è una
formula tanto abusata nella pubblicistica contemporanea, soprattutto negli
ambiti cosiddetti “creativi”, da suonare logora e quasi svuotata di senso.
Tuttavia, l’immagine della “nuova luce”, di origine mistico-religiosa, rimanda
alla palingenesi, alla rinascita, mentre gli “antichi valori” sono la categoria
totem dei gruppi ultraconservatori che rimpiangono i “bei tempi andati” e si
pongono nella posizione ringhiante dell’animale braccato nella tana verso tutto
ciò che è nuovo o “altro”.
Effettivamente l’assessore ha
colpito il nervo scoperto della Milano Anni Zero. Milano fu una città
bellissima prima degli sventramenti e interramenti fascisti e della
ricostruzione postbellica ancora più dissennata. Da quando ha smesso di essere
bella (e turisticamente appetibile), non ha saputo fare dello spazio urbano un
elemento identitario contemporaneo, a differenza di Berlino, Tokyo e persino di
Parigi.
In molte nazioni, la seconda
città, in competizione con la Capitale dove sono i centri del potere, è la più
dinamica. Così Milano è stata “capitale morale”, “capitale finanziaria”, quindi
da “da bere”, e ora è il quartier generale di Lele Mora e Fabrizio Corona.
Milano inoltre ha davvero vissuto “bei tempi andati”, ad esempio durante il
Rinascimento, quando Leonardo da Vinci
e Bramante inventarono Milano come
ancora è nei tratti urbanistici fondamentali e lo “spirito della città”,
soltanto che i milanesi l’hanno dimenticato e i turisti giapponesi sono i soli
ad accorgersi del monumento-pantheon a Leonardo e allievi, correttamente
collocato al centro della piazza più simbolica di Milano, piazza della Scala.
Un ammirevole soprassalto di rigore ha consigliato ai visual artist del Festival LED di agghindare il monumento
vinciano con linee di luci neutre a seguire la sagoma invernale degli alberi;
peccato per l’invasione di lumache rosa oversize dell’anno scorso.
Forse il rosa non sarà il
“colore fashion” della prossima stagione, ma certamente lo è stato nell’inverno
milanese, cortesemente sponsorizzato dal quotidiano più letto e più rosa
d’Italia. Curiosi globuli simili a meduse rosa-violacee incombevano sulle teste
dei passanti in via Dante e corso Venezia, come in un film
catastrofico-lisergico. La stessa estetica chiassosa, da parvenu Billionaire, ha informato l’allestimento
della volta della Galleria Vittorio Emanuele: un enorme ciondolo Swarovski
incombeva dalla cuspide con lo stemma scudocrociato cittadino esageratamente
brillante, come il pendolo del racconto di Edgar Allan Poe. È abbastanza simbolico
che una malcapitata passante sia stata colpita e purtroppo gravemente ferita da
un frammento crollato all’improvviso. Forse si può interpretare il complesso di
allestimenti luministici come una metafora geniale dell’incombenza
dell’imbarbarimento del gusto che alimenta ed è alimentato dall’imbarbarimento
dei costumi e minaccia di morte una civiltà.
Curiosamente l’intervento più
controverso, l’abete natalizio griffato Tiffany in piazza Duomo, ci sembra il
più innocuo. Appare almeno anacronistico invocare una cacciata dei mercanti dal
tempio, soprattutto se il “tempio”, il Duomo (che forse non tutti i milanesi
sanno essere un esempio architettonico senza eguali al mondo), ha
legittimamente deciso di finanziare l’inesauribile “fabbrica” coprendo le
impalcature con billboard formato gigante dei più ricchi brand della moda. Semmai la questione si pone in termini di decoro urbano e l’abete dalle luci color
luce, non dissimile dall’omologo newyorchese, è una parentesi di sobrietà nella
Milano autunno/inverno 2010/2011.
Non si tratta ovviamente di
rifiutare l’intervento su uno spazio urbano dato, storicizzato e stratificato,
che anzi è l’encefalogramma di un organismo urbano. È curioso però che le
aggiunte roboanti (Grand Arche, Centre Pompidou, la piramide di cristallo al
Louvre…) ispirate dalla grandeur mitterandiana
sul tessuto urbano di una città come Parigi, più “difficile” di Milano in
quanto costruita quasi integralmente dal barone Haussman sotto Napoleone III e
quindi segnata dall’uniformità architettonica e da monumenti di una tale
entropia simbolica da fare il vuoto attorno, siano già integrati nel paesaggio
e nell’immaginario parigino.
Anche Milano sta mettendo in
opera cantieri ambiziosi (dal neonato Museo del Novecento ai grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel
Libeskind) ma, senza tessuto connettivo infrastrutturale e programmazione,
si rischia di innalzare cattedrali nel deserto come già il quartiere Bicocca,
velocemente derubricato dall’uso da ambizioso progetto di rifunzionalizzazione
a zona a orario ufficio. Si tratta piuttosto di trovare un sistema coerente di
segni contemporanei e tradurlo in una nuova identità urbana che non leghi solo
“antico e moderno” ma anche “arredo e decoro”.
Tuttavia, le città non sono
altro che la forma del tempo. E lo spirito del nostro tempo, in Italia, si
fonda su certi “valori” (se non “antichi”, il presente perpetuo dei tempi
televisivi azzera la questione) e la “luce nuova” di via Lorenteggio rifulgeva Zeitgeist nelle massime del caro estinto
Mike Bongiorno, “un uomo ignorante che
non si vergogna di esserlo”, come lo definì Umberto Eco. Così accade che
una città passi da Leonardo da Vinci a Lele Mora senza quasi accorgersene.
alessandro ronchi
[exibart]