Si fa un gran parlare d’alta velocità ferroviaria, metodo
lindo per trasportare umani e merci. Specie se le linee son tracciate con
cognizione (geologica, idrologica, paesistica ecc.) di causa. Così, dal Nord Italia
almeno, pare assurdo pensare all’aereo per recarsi a Lione: col famigerato Tgv
si è in breve nella terza città francese.
In breve, insomma… L’incantevole (e deserta) stazione
intitolata a Saint-Exupéry, opera di
Santiago Calatrava, è infatti ben lungi dalla città e coincide con
l’aeroporto. Che occorre attraversare per raggiungere la fermata d’una navetta
che, in tre quarti d’ora, arriva in centro. In questo caso, dunque, lo slogan
“dal centro città al centro città” è assai poco veritiero.
Per gli appassionati di contemporaneo, i mesi più adatti per
recarsi a Lione sono quelli della Biennale, quest’anno – sotto l’imperitura
direzione artistica di Thierry Raspail – affidata alla cura di Hou Hanru, dopo
il forfait di Catherine David.
Lo spettacolo del quotidiano (titolo che pare un controcanto al
Fare
mondi di Birnbaum) è declinato in cinque
sezioni:
La magia delle cose, L’elogio della deriva, Viviamo insieme,
Un altro mondo è possibile e
Veduta (quest’ultima disseminata in città e
sobborghi). Capitoli miscelati nell’allestimento e distinguibili solo dal
colore delle didascalie delle opere. Quattro le sedi, distribuite lungo l’asse
nord-sud, e chiusura fissata il 3 gennaio.
S’inizia da un luogo storico della Biennale lionese, la
Sucrière, situata al capo della penisola formata dalla confluenza di Rodano e
Saona, in un quartiere un tempo destinato ai docks e ora in rapida evoluzione.
Alla Confluence hanno e avranno sede gallerie d’arte e uffici, studi e
ludoteche, e pure la Docks Art Fair, che si tiene durante il vernissage della
Biennale. La Sucrière cessa così d’essere una cattedrale nel deserto; anzi, fa
da catalizzatore, al modo del Tate Modern nel londinese Bankside.
Ad aprire le danze sono la coppia di silos dipinta da
Rigo
23 e il murales di
Eko Nugroho, mentre la carta da parati di
Tsang
Kinwah funge da intermezzo nella hall.
All’interno spiccano per discrezione i disegni del pachistano
Bani
Abidi, affiancati dalla simile e
contraddittoria levità delle
Sculptures di
Takahiro Iwasaki, con castelli che emergono da sacchi della
spazzatura e complesse strutture architettoniche che si riflettono in specchi
d’acqua assenti. Ben più chiassoso
Shilpa Gupta col suo cancello che si apre e chiude con gran
fracasso, mentre non scatena alcun brusio da parte dei passanti la penosa
deambulazione cui è costretto uno scippatore cinese, a causa delle manette
legate al polso e alla caviglia destri (è il soggetto del video di
Lin
Yilin).
Sul fronte dello straight video si distingue la collezione
di filmati urbani di
Oliver Herring.
Poetico e divertente come di consueto l’assemblaggio di
Sarah Sze, dotato anch’esso d’un controcanto che ha il sapore
del già-visto: è l’installazione di
Barry McGee, coi soliti furgoni ribaltati, i pannelli in legno
e le statuette africane semoventi con bomboletta spray.
Una rampa di scale e si trovano testi e disegni di
Le
Corbusier linoincisi da
Latifa
Echakhch. E se
Michael Lin è cristallino nel ricreare una “chincaglieria”
cinese, che poi riordina in casse e cassetti, richiede uno sforzo ermeneutico
ben maggiore
Ian Kiaer: senza
didascalie, difficile capirci qualcosa delle sue sculture. Fortuna che c’è il
Suv del collettivo
HeHe:
scatenato nel traffico, emette abbondanti fumi colorati. Si badi bene, però: è
in versione mignon e telecomandato. Altro collettivo degno di nota, il turco
Ha
Za Vu Zu, anch’esso umoristico ed engagé.
E sempre in tema di humour noir,
Alan Bulfin – lo si ritrova al Mac – e i suoi video realizzati
col cellulare: il soggetto è la malcapitata sorellina, bruciata viva, investita
da un’auto, dilaniata a colpi d’accetta…
Con la seconda rampa ci s’imbatte nell’auto-referenzialità
meta-cinematografica di
Agnès Varda e
nell’ennesimo collettivo impegnato, cinese stavolta: lo
Yangjiang
Group presenta un’installazione agilmente
leggibile, che coniuga scommesse, calligrafia, convivialità e natura. Si chiude
però con una nota dolente: le ossa in porcellana di
Yang Jiechang non sono praticamente visibili, a causa di un
eccessivo timore per la loro fragilità (perché allora all’opera di Sze ci si
può avvicinare senza limiti?).
E gl’italiani? Uno soltanto, d’adozione e con un’opera
datata:
Per Speculum (2006) di
Adrian
Paci.
Al modo delle ormai proverbiali sedie di
Ai WeiWei a Documenta, anche a Lione s’intravedono presenze
ricorrenti: le belle foto di
Thierry Fontaine e gli “eventi” di
George Brecht, siano essi riportati su foglietti dattilografati,
lasciati al punto di vista nell’osservatore (
Event Glasses) o
composti da sedia+oggetto (ed eventuale legenda).
A questo punto è presumibile che si sia abbandonato il
tentativo di seguire i colori delle didascalie. Risultato parziale? Una buona
collettiva, nulla più nulla meno. Largo pertanto a una sosta culinaria, magari
da Do Mo, raffinato ristorante nippo-francese a due passi dalla Sucrière,
aperto lo scorso settembre.
Per favorire la digestione, quattro passi verso l’Entrepôt
Bichat. Dov’è di scena un
Pedro Cabrita Reis in gran forma, con decine di neon ad affollare un sito d’archeologia
industriale (tema abusato, d’accordo, ma il risultato è indubbiamente superiore
a quello raggiunto all’esterno della Sucrière). Viceversa, Rigo 23 ha già dato
il meglio di sé, anche perché qui è relegato al verso del cancello sul retro.
Un intermezzo passatista? Ci si può dilettare con le rovine
gallo-romane di Lugdunum e il relativo museo incastonato nella collina, opera
degna di nota di
Bernhard Zehrfuss. Per
arrivarci si può usufruire della caratteristica funicolare, la cui gemella ha
il capolinea poco distante, alla Basilica di Notre-Dame de Fourvière. Vi
rammenta il Sacré Cœur di Montmartre? Che dire allora dell’adiacente “petite
Tour Eiffel”? Ma se l’originalità scarseggia, il panorama ripaga con una vista
mozzafiato, dominata in lontananza dalla “matita”, ossia la Tour de la
Part-Dieu.
Scendendo attraverso il parco e le scalinate si giunge alla
celeberrima città vecchia, esteso quartiere medievale indicato Patrimonio
Mondiale dall’Unesco. Tappa obbligata, la cattedrale di St-Jean. E val la pena
girovagare senza meta, alla scoperta di corti, facciate e traboule (gli angusti
viottoli che collegano gli edifici), ma pure per osservare com’è possibile
conciliare turismo e vitalità. Nulla a che vedere con certi mal esempi italici
di truffaldineria e conservatorismo.
Superato il Saona ci si sperde nell’immensa Place Bellecour
e si rientra in clima biennalesco. Ha sede qui, infatti, la fondazione armena
intitolata a Léa e Napoléon Bullukian, dov’è ospitato l’ingenuo intervento di
Laura
Genz (è così difficile esprimere l’impegno
socio-politico con mezzi artistici e non meramente documentari?) e
l’installazione praticabile in legno del duo
Dejode & Lacombe (ma in questo “campo” è
arduo superare il Padiglione austriaco di
Hans Schabus alla Biennale di Venezia del 2005).
Raggiunto l’imbarcadero sul Rodano, nella contigua Place
Poncet, si sale in bateau in direzione della Cité Internationale concepita da
Renzo
Piano. Nell’area ha sede il Musée d’Art
Contemporain, la cui collezione è stata recentemente pubblicata da 5
Continents. Ed è qui che s’intravede una svolta: innanzitutto con l’“obamania”
rinnovata dalla video-performance di
Sylvie Blocher, poi con il collettivo
T.A.M.A. – composto da
Maria Papadimitriou,
Lucy Orta e Gabi Scardi -, che presenta un lavoro impegnato e artistico dedicato
al popolo Rom. Simili lunghezze d’onda per il malese
Wong Hoy Cheong (che sceglie alcune tele conservate al Museo di
Belle Arti di Lione e le riproduce, però con protagonisti africani, asiatici o
mediorientali), per l’indonesiano
Jompet Kuswidananto (con un esercito fantasma, automatico e
anacronistico, a rappresentare una cultura composita, che sa assorbire stimoli
da ogni dove nella “propria” tradizione) e per
Katerina Seda (che ha coinvolto gli abitanti d’una cittadina
tedesca per mettere su carta i loro usi e costumi, dandone conto in un
ordinatissimo pullulare di disegni).
E se un intero piano è dedicato a un
Sarkis in versione “remix”, in cima al Mac prosegue
un’ottima esposizione. Con
mounir fatmi e la sua riflessione sulla memoria individuale e collettiva
(chilometri di pellicola di VHS pendono inutili e le fotocopiatrici a
disposizione dei visitatori si palesano inservibili); con
Ceren Oykut e la sua narrazione disegnata a parete; con
Lee
Mingwei e l’invito a cogliere un fiore dal
suo Moving Garden, ma soltanto se si è disposti a donarlo a uno sconosciuto.
Il percorso è stato accidentato, ma infine anche Hou Hanru è
riuscito a donare qualcosa al pubblico. E non era un compito facile, visto il
ridotto tempo a disposizione per organizzare la rassegna.