Che cosa c’è di veramente imperdibile, che si incollerà alla memoria almeno per qualche anno di questi giorni newyorkesi, dove, come accade in ogni parte del mondo che ospita un grande “evento” (difficile trovare una circostanza più appropriata per simile parola), il resto della città fa quadrato e sforna altri “eventi”, uno dietro l’altro? Non rimarrà la Biennale del Whitney, dove gli unici artisti significativi sono quelli che già si conoscono, tipo Andrea Fraser, che ha liquidato il suo contributo alla Biennale con un testo riportato su un libro incollato, perché lei vede «l’arte come un’istituzione critica» e quindi uno scritto, un video o altro sono equivalenti, se l’intenzione è svelare i meccanismi che incardinano tra loro i vari soggetti del sistema dell’arte e destrutturare un mondo vissuto come apparato di potere. Della manifestazione a Madison Avenue si ricorderanno i film di Michael Robinson proiettati in questi giorni, che però già sono abbastanza noti e apprezzati, anche se non fa mai male ripassarli. Resterà come una nota simpatica – non nuova, ma almeno divertente – il trasloco che Dawn Kasper, artista che dal 2008 non ha più uno studio, ha fatto nel museo, dove passa i giorni della Biennale, leggendo, chiacchierando con gli amici e con i visitatori che hanno voglia di conoscerla, lavorando ogni tanto, ma dove soprattutto usa quello strano tempo musealizzato e ribattezzato “Nomadic studio practise experiment” per «osservare le reazioni del pubblico che, pure brevemente, condivide questa esperienza con me», mi spiega.
Poi forse non ci scorderemo di un altro ingresso interessante all’interno di un museo: skype. Che mette in videochat un anziano artista dei Red Krayola, rock band d’antan e psicadelica, con chiunque voglia chiacchierare con lui. E oggi il discorso inframmezzato dai soliti scatti di skype tra lui e una giovanissima e puntigliosa videoartista non era affatto male.
E meglio le chiacchiere, o le parole inquietanti pronunciate dalla voce ancora più inquietante di un pupazzo che Gisèle Vienne mette in mano ad un adolescente facendoci capire che a volte i ragazzi non hanno migliore compagnia dei feticci per sragionare sulla natura della realtà, meglio questo di tutta quell’inutile pittura che biennalmente il Whitney ci propina. Come se il mondo nel frattempo non cambiasse e quello che conta rimane mettere in mostra i quadri da appendere al muro. Lodevole il tentativo di alcuni artisti in quello che a me pare essere l’obiettivo di far tornare anche l’arte a una maggiore aderenza alle cose, alla nostra vita. E non parlo di Arte Pubblica o di mediazione sociale, ma del tentativo di guardare alla tecnologia come a un linguaggio non specializzato, ma addirittura primitivo per riappropriarsi di quanto essa ci toglie allorché si pone come un sapere specialistico e incontrollabile. E’ quanto cercano di fare Sam Lewitt con il suo Ferrofluid e Lutz Bacher.
Ma per il resto, solo per dirne una, come si fa a fare una manifestazione del genere per tanti anni sempre nello stesso posto, con le stesse regole, in un edificio che ormai va stretto anche solo come museo? Anche stavolta, insomma, ce la dimenticheremo presto la Biennale del Whitney. Così come passeremo velocemente sull’Armory, Pulse, Scope, Volta, dove, a parte qualcosa nella corazzata Armory, è difficile vedere roba decente. Perché solo il voler essere diversi non paga, si rischia anzi di fare del brutto in piccolo e poco più. L’unica cosa che non passerà inosservata è la fiera Independent, messa in cantiere quattro anni fa dai galleristi Darren Flook della londinese Hotel e Elizabeth Dee di New York. Finalmente! Finalmente si respira un po’ d’aria fresca, la confusione al punto giusto senza che dia troppo fastidio, bei lavori, qualche inevitabile cosa inutile, ma cose ancora non viste, artisti giovani che si mischiamo a quelli più affermati e che ti fanno pensare che l’arte è ancora un linguaggio vivo se in tanti e diversi hanno voglia di mettersi in gioco.
Ma se durante questi giorni si salva poco, a parte dei passaggi memorabili della mostra di Cindy Sherman al MoMa, le solite super gallerie di Chelsea dove, tra tante, è anche facile che ci scappi qualcosa di buono, non mi pronuncio sulla triennale degli “Ungovernables” al New Museum che non ho ancora visto, perché allora New York seduce ancora tanto? La città, la sua luce e lo skykline fanno la loro parte, è scontato. Ma perché tanti artisti, curatori continuano a venirci e a rimanerci, italiani compresi? Sfidando difficoltà, la durezza di un sistema che raramente fa sconti? E’ ancora forte il mito o la città continua ad offrire opportunità che altrove non si trovano?
Un suggerimento viene dalla parola “independent”, perché forse questo è ciò che funziona in questa città, l’avere comunque riserve, aree, probabilmente non “indipendenti”, ma di possibilità, dove il fare è un’orizzonte possibile. Proveremo presto a ragionare con altri di queste cose.
A.P.
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