MAXXI, OH CARO

di - 2 Settembre 2010
Con
un costo di costruzione al mq di 7.500 euro (per il Macro di Odile Decq sono bastati 2.500 euro) ci saremmo aspettati le
scintille dal museo di via Guido Reni. E invece è bastato un giro alla vernice
per restare disorientati dal contrasto tra l’avvincente autoreferenzialità
degli spazi di Zaha Hadid e le
incertezze di un progetto culturale che li vivificasse.

La
prima delusione deriva dalle due mostre forti: Gino De Dominicis e Luigi Moretti. Personaggi certamente importanti nel nostro clima culturale, ma che
poco hanno a che vedere con un museo “dedicato”, a quanto dice la brochure di presentazione, “alla
creatività contemporanea
”. Certo, si
dirà: senza conoscere il passato non si può comprendere il presente. Ma allora
perché non Michelangelo o Le Corbusier,
tanto per fare due nomi di titani con i quali continuiamo a confrontarci? No,
il problema non era storico, ma burocratico: se si fosse scelta la
contemporaneità, analizzando un protagonista, un movimento o semplicemente dei
problemi, ci sarebbero state polemiche a non finire. Sarebbero emerse le
contraddizioni di una Fondazione che mette insieme funzionari di
Soprintendenza, Sgarbi e Zecchi. E allora si è preferito optare su nomi
rispetto ai quali nessuno avrebbe potuto dire alcunché. De Dominicis e Moretti.
Bravi? Bravi. Italiani? Italiani. Aperti al nuovo? Aperti al nuovo. Riferimenti
per le nuove generazioni? Riferimenti per le nuove generazioni.


Non
entro nel merito delle mostre, non imperdibili. Vorrei solo far notare la
fantasia nella scelta dei curatori: Achille Bonito Oliva per De Dominicis e
Bruno Reichlin e Maristella Casciato per Moretti. I due ultimi meno noti, ma
non giovani e conosciuti dagli addetti ai lavori per non essersi
contraddistinti per apertura al contemporaneo. Vi è poi la mostra Spazio. Un pasticcio interdisciplinare a cominciare dal
titolo, una parola tanto generica da mettere d’accordo arte e architettura e
far parure con Moretti che, com’è
noto, aveva usato il termine come titolo per una bella quanto sfortunata
rivista. Perché un titolo così generico? Perché era una parola valigia per
tutte le opere della collezione del Maxxi, e quando non si sa a che santo
votarsi perché manca un filo conduttore, il titolo non può che essere vago. Ma
se ciò è tollerabile per eventi minori organizzati da strutture di poco peso,
non lo può essere per mostre che hanno avuto oltre dieci anni per essere
preparate e per un’istituzione che vuole essere un riferimento nel panorama
nazionale e internazionale. Inutile aggiungere che quando manca un’idea di
fondo, ogni articolazione è artificiosa e alla fine un po’ ridicola. Come lo
sono, infatti, le quattro sottosezioni il cui titolo, per genericità e
pretenziosità, ricorda i discorsi delle famose vignette di Tutti da Fulvia
il sabato sera
: “Naturale
artificiale”, “Dal corpo alla città”, “Mappe del reale”, “La scena e
l’immaginario”.


In
questa mostra di pezzi presi dalla collezione, mancavano infine le opere degli
architetti. Una grave eventualità in quanto si correva il rischio di lasciare
da solo Moretti, l’autore della palestra del Duce. Da qui l’idea di aprirsi al
presente e di chiamare dieci progettisti a realizzare un intervento site
specific, da esporsi insieme alle altre opere d’arte. Un’operazione
culturalmente azzardata, perché mettere assieme arte e architettura può essere
fonte di gravi ambiguità. E che avrebbe avuto senso a condizione che la mostra
fosse nata da un forte progetto culturale e tutti gli architetti fossero stati
scelti tra quelli in grado di lavorare sul terreno di confine. Le due
condizioni non sono state rispettate. Un caso per tutti è quello di Cino
Zucchi
che, tolto dalla sua
dimensione professionale di qualità e di tutto rispetto, si è mostrato, e non
poteva essere altrimenti, un perfetto dilettante nel campo dell’installazione.
Inoltre, anche quando le opere, come nel caso di Diller e Scofidio, sono interessanti o, come nel caso di Teddy Cruz, cariche di valenze politiche, si perdono all’interno
della kermesse, apparendo esercizi di stile privi di specificità
architettonica. Se ne devono essere accorti gli organizzatori, che hanno
pensato di integrare le dieci installazioni disperse tra le varie sale con una
parete di 40 metri, dal titolo Geografie Italiane, opera di Studio Azzurro. Uno schermo tanto grande da non passare inosservato,
ma non tale da catturare lo spazio. Segno di un’evidente sconfitta nella lotta
di sumo con la struttura della quasi imbattibile Hadid.


Nella
presentazione delle mostre il presidente Baldi e il ministro Bondi sostenevano
all’unisono che il Maxxi è stato opera congiunta di sei governi, di destra e di
sinistra. Risultato di uno sforzo bipartisan di cui dovremmo andare orgogliosi.
Si sono dimenticati di aggiungere che il miracolo è avvenuto nell’inefficienza
dei tempi e nello spreco dissennato di risorse. Purtroppo, dopo
l’inaugurazione, il quadro sembra peggiorare: occorre, infatti, aggiungere una
certa mancanza di prospettiva culturale e una scarsa capacità di scelta. Rimedi
possibili? Coinvolgere curatori di statura internazionale, possibilmente
stranieri e con esperienza in importanti istituzioni oppure italiani, di
talento e giovanissimi, dotati di intelligenza e potere sufficiente per
scavalcare le miserie della politica culturale local-ministeriale.

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Spazio
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L’architettura
del Maxxi in anteprima

luigi
prestinenza puglisi


*articolo pubblicato
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