Michal Rovner e la nuova percezione dell’immagine fotografica |

di - 14 Giugno 2004

Fino ad oggi un’immagine fotografica, per quanto imprecisa, sfocata o poco leggibile, rimandava direttamente all’oggetto ritratto, ne era comunque l’impronta digitale, ne condivideva l’essenza, e rispondeva quindi ad un’esigenza umana: ne soddisfaceva l’appetito di verità, la necessità di mummificare il reale . Scrive Dubois: “la fotografia in quanto tale è ‘singolare’, attesta (l’esistenza di ciò che propone) e designa (indica, mostra); entrambe queste caratteristiche derivano dalla contiguità referenziale dell’atto fotografico” ; e secondo Barthes: “l’effetto che essa produce è di attestare che ciò che vedo è effettivamente stato. Ogni fotografia è un certificato di presenza” .
Da qui parte Michal Rovner quando va a girare i suoi video ed a scattare fotografie in luoghi densi di storia e di significati privati e collettivi come Russia, Romania e Israele . Qui desume immagini che sono impregnate del senso della realtà da cui sono tratte. Questa è la sua materia prima.

Oggi la diffusione capillare dell’uso di macchine fotografiche digitali –questi ultimi anni hanno segnato una svolta in questo senso- ed il largo utilizzo di immagini digitali soprattutto in ambito pubblicitario, hanno fatto sì che il pubblico abbia completamente metabolizzato l’immagine modificata e addirittura la realtà virtuale: è venuta meno la corrispondenza ontologica tra l’oggetto ritratto e la sua riproduzione fotografica. Oggi l’immagine fotografica digitale è immagine creata dall’uomo; è altro, è indipendente dalla sua fonte (se mai è esistita).
L’occhio inesperto spesso non è in grado di riconoscere una fotografia digitale da una analogica. Tutti sanno che nel momento in cui si scatta la fotografia si incamerano delle informazioni che potranno essere modificate in un secondo momento. Ne consegue che di fronte all’immagine fotografica non ci si chieda più a quale fonte vada ricondotta; ci si chiederà piuttosto se c’è qualche spunto dal reale.

In ambito artistico ne derivano due principali tendenze: da una parte c’è l’euforia di nuove possibilità nella costruzione di cosiddette realtà virtuali, che a livello teorico poco aggiungono all’animazione tradizionale; dall’altra si utilizzano nuovi eccezionali strumenti di modifica dell’immagine fotografica rimanendo ancorati ad un concetto tradizionale di intervento sull’immagine fotomeccanica.
La differenza tra lo stuolo di artisti che oggi utilizzano il digitale con inconsapevole disinvoltura e Michal Rovner, è fondamentalmente che quest’ultima sviluppa le enormi potenzialità linguistiche che il mutamento epocale nella percezione dell’immagine fotografica implica, senza per questo perdere un senso di responsabilità verso il reale: crea un livello altro di riflessione sul reale ad esso parallelo, ma strettamente connesso.
Catturata l’immagine come si è detto, inizia un lungo, raffinatissimo processo di modifica per progressiva sottrazione eliminandone i dettagli e l’identità; questo avviene successivamente e altrove (a New York), in una netta distinzione delle due fasi del processo conoscitivo. Le figure sono ridotte a poco più di sagome e lo sfondo, presente nei suoi lavori ancora fino ad un anno fa, dopo una progressiva semplificazione, si è dissolto in un bianco completo. Dal soggetto si sottrae così specificità temporale e geografica. L’artista ne ricava uomini minuscoli in bianco e nero che su un bianco mentale si agitano, si muovono, in fila o a schiere, in gruppi compatti o in un caotico brulicare. Il luogo o la persona ritratta in origine diviene così topos di riferimento, luogo di riflessione su una condizione.

Gli omini, privati delle caratteristiche individuali, vengono còlti nei movimenti grossolani e negli spostamenti collettivi, divenendo unità semplici di una collettività mobile. La ripetitività delle azioni, ottenuta mediante un semplice comando di ripetizione loop dei file che regolano l’immagine, così come l’osservazione dall’alto di questo brulicare e agitarsi anonimo, dà una vertigine: siamo di fronte ad una sintesi visiva, quasi un archetipo, dell’agire umano. La lenta alterazione, la progressiva modifica sul materiale di partenza, hanno portato al completo superamento dell’essenziale tautologia del mezzo fotografico, ma non c’è un’irresponsabile fuga nel virtuale. Si tratta piuttosto di un nuovo efficace realismo.
L’immagine dell’uomo diviene così vocabolo base di un linguaggio primordiale che sta al limite tra disegno e scrittura. Ne risulta un testo epico in cui si parla di un uomo nuovo caratterizzato da una dimensione di confine tra geografia e virtualità, con la potenza aurorale di un linguaggio nuovo. Senza facili cadute nel banale o nel retorico.

raffaele bedarida

[exibart]



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  • All'ultima Biennale di Venezia in assoluto l'artista migliore, non ci sono dubbi.

  • manca la riflessione fondamentale: l'immagine originale digitale (la "sinopia" da elaborare) può essere ripresa da un'immagine fotografica analogica o fatta a mano (quadro). Il salto eseguito dalla elaborazione nel secondo caso è storico e enorme e appartiene alla storia secolare dell'arte dove tutti i "capolavori" sono nati da un altro. Inoltre gli effetti ottenuti, come dall'esempio degli omini, si chiamano di scheletrizzazione e si fanno da un secolo con la pellicola "lith" a massimo contrasto usata anche per ottenere xilografie a rilievo da immagini mezzo tono. Il procedimento digitale consente ben altro.A.Gilardi
    Ando Gilardi

  • Artista che non perde per strada quello che lo specifico fotografico. Parte da un "documento" del reale, attestato dalla foto in presa diretta. Mentre l'elaborazione successiva è volta cogliere l'essenza dei soggetti ritratti. Ecco che entra in causa l'artista, con le sue scelte opera una sintesi per cogliere "L'Esenziale". E' in fondo la stessa operazione che potrebbe compiere un pittore astratto, ma in questo caso il mezzo fotografico pone dei paletti, dei punti fissi da cui partire per rimettere in discussione l'immagine. Immagine fotografica, quindi parte del reale; ecco quali sono dunque i punti fissi da cui partire, affinchè l'essenza che viene colta sia inequivocabilmente figlia del reale.

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