Che a far scoccare la scintilla del Futurismo sia stato
Filippo Tommaso Marinetti è una verità inconfutabile: senza la sua genialità, la sua cultura internazionale, le sue doti di grande promotore e agitatore culturale ma anche, diremmo oggi, di sofisticato uomo di marketing, questa avanguardia avventurosa, utopistica e generosa non avrebbe mai visto la luce. Ma è altrettanto evidente che senza il campo di forze offerto a lui e al suo pensiero da Milano, quella scintilla non si sarebbe potuta innescare, o almeno avrebbe causato un incendio meno grandioso e certo meno duraturo.
La Milano d’inizio Novecento è una città in profonda trasformazione: con oltre 500mila abitanti, di cui 66mila sono nuovi immigrati chiamati dalle industrie, è dotata di modernissimi tram elettrici e può contare su nuove centrali elettriche, che si affiancano a quella di via Santa Radegonda presso il Duomo, attiva dal 1883, la prima in Europa per la distribuzione continua di energia. Il paesaggio urbano si trasforma radicalmente: cambiano i colori della città, specie durante la notte, ora illuminata dai globi elettrici, che inducono i cittadini al “
nottambulismo” (“
E possiamo noi rimanere insensibili alla frenetica attività delle grandi capitali, alla psicologia nuovissima del nottambulismo, alle figure febbrili del viveur, della cocotte, dell’apache, dell’alcolizzato?”, si domanda Marinetti nel suo Manifesto di fondazione del futurismo, pubblicato sul “Figaro”, a Parigi, il 20 febbraio 1909). Cambiano i suoi cieli, ora solcati dalle linee aeree dell’elettricità, cambiano le sue strade, percorse dalle prime automobili:
nell’“
Italietta” sonnolenta del tempo è questo l’unico scenario possibile per l’avventura dirompente e innovativa del futurismo.
Milano dunque è l’ineludibile premessa del futurismo, che infatti si nutre, rielaborandoli, dei succhi della cultura lombarda di quegli anni: dal simbolismo, di cui “Poesia”, la raffinata rivista fondata nel 1905 da Marinetti, è il più potente (e raffinato) organo di diffusione, al pensiero socialista, di cui tutti i suoi artisti sono convinti assertori, fino all’amore per le novità portate dalla scienza e della tecnologia. Limitandosi alle arti visive, tra i firmatari dei due manifesti pittorici del 1910 (Boccioni, Carrà, Russolo con Romolo Romani e
Aroldo Bonzagni, che presto si ritirano lasciando spazio a
Gino Severini e a
Giacomo Balla) il simbolismo ha la meglio nell’opera pittorica di
Umberto Boccioni, primo vero teorico della pittura e della scultura futuriste e acceso ammiratore di
Gaetano Previati, ma anche in
Luigi Russolo, pittore e musicista davvero rivoluzionario, non meno che in
Romolo Romani. Il pensiero socialista (come già in
Pellizza da Volpedo e in
Morbelli), ma qui nella declinazione anarchica, domina invece in
Carlo Carrà, il cui capolavoro dei primissimi anni futuristi resta il gran quadro dei
Funerali dell’anarchico Galli. Ma, seppure in misura minore, l’attenzione ai fenomeni sociali e al difficile inurbamento delle nuove masse operaie compare anche in Boccioni e in Russolo, che registrano i disordini di quegli anni in capolavori come
Rissa in Galleria e in
Retata il primo e in
Rivolta il secondo, per citare solo i più famosi.
Anche dal punto di vista tecnico e stilistico è la cultura pittorica lombardo-piemontese di Pellizza, Morbelli,
Longoni e Previati a offrire loro (che in gioventù avevano gravitato tutti, seppure per farle la fronda, intorno alla gloriosa Accademia di Brera) gli strumenti per costruire la nuova pittura futurista: “
Non può sussistere pittura senza divisionismo”, scrivono i cinque “padri fondatori” nel
Manifesto tecnico della pittura futurista, datato 11 aprile 1910. E con un divisionismo vibrante e incandescente è costruito il
tableau-drapeau del primissimo futurismo,
La città che sale di Umberto Boccioni, che certo nel comporlo guardò ai grandiosi cavalli impennati dei
Trittici del Giorno e dell’
Eroica del suo maestro Previati, ma che invece di celebrare temi ancora pienamente simbolisti come la luce o la musica inneggiò al fervore tutto futurista di una metropoli allo stato nascente, con i cantieri, i ponteggi, i tram, e il popolo degli operai al lavoro: come i cinque firmatari, Boccioni in testa, avevano scritto nel
Manifesto dei pittori futuristi (11 febbraio 1910), “
è vitale soltanto quell’arte che trova i propri elementi nell’ambiente che la circonda”.
Ben presto, dopo i viaggi a Parigi dell’autunno del 1911 e del febbraio del 1912 (per la mostra da Bernheim-Jeune che li imporrà all’Europa) il tratto divisionista lascerà spazio sia in Boccioni che -più ancora- in Carrà a una costruzione più salda e volumetrica dell’immagine (per tutti valgano Elasticità di Boccioni e
La Galleria di Milano di Carrà, entrambi del 1912). E di qui in poi, specie con la scultura (del solo Boccioni) il futurismo imboccherà una strada nuova, che muterà radicalmente di rotta quando l’asse del movimento si sposterà a Roma: dal 1915 il testimone passa infatti da Boccioni alle mani del romano Giacomo Balla (Boccioni muore nel 1916, dopo aver vissuto sin dal 1915 una grave crisi creativa) che imprime una svolta in direzione astratta, archiviando così l’impronta originaria di Milano, del suo paesaggio metropolitano e del suo humus culturale, che avevano modellato con innegabile forza i primi cinque splendidi anni del futurismo.