Ma nell’arte contemporanea le
definizioni non sono mai definitive, tutto si sgretola e i fondamenti di ogni
processo sembrano andare in cerca di provenienza, di appartenenza e di densità: caratteri tecnicamente ed
etimologicamente formali.
possibile affermare, al di là dei fardelli della storia, che l’integrità del
monumento è memoria in forma solida? Come sono rappresentate, oggi, esaltazione
morale e durevolezza? Come sono cambiati luoghi, politiche, pratiche, materiali e tempi
del ricordo? Cosa vuol far sapere l’arte contemporanea attraverso il monumento?
Sin da quando la scultura
minimalista sembrava accrescersi in divenire, emergendo con le proprie
strutture monolitiche (a chi ci riferiamo? Beh, a Richard Serra, Carl Andre e Donald Judd innanzitutto), sono apparsi molti
più memento mori indirizzati
al proprio tempo piuttosto che monumenti d’arte per il proprio tempo. E gli splendori di
ciò che qualcuno avrebbe potuto considerare monumentale, grazie a solidità, a
portata impositiva, a eloquenza pubblica e a tipologia di resistenza al
cambiamento – riflessi di un’estetica del suprematismo industriale -,
improvvisamente sono diventati solo bagliori di una lingua desueta. Oggi la
durata del monumento, data la sua vertiginosa mancanza di vita, sembrerebbe un
argomento prettamente ironico, soprattutto se si considera il clima di consumi
usa-e-getta, dove il tempo è adattato all’uso individuale più che alle
applicazioni della collettività.
Non è un caso, infatti, che il
linguaggio del monumento sembri trovare più appigli nella storia dell’arte,
nell’ambito funerario o negli edifici da visitare, più che in moventi realmente contemporanei. È un
esempio di questo, in Italia, il monumento di Mary Vieira, Libertação: monovolume a
ritmo aberto.
Attualmente situato sui colli bolognesi, il monumento è stato realizzato solo
nel 2001 in nome dell’eroica resistenza di un drappello di soldati brasiliani
deceduti in difesa dell’Italia per mano delle truppe tedesche.
Eppure non è del tutto credibile
affermare che il monumento in sé cominci, nel XXI secolo, a non incontrare più
i favori del proprio tempo; anche se i suoi goffi tentativi di cavalcare tanto
la scultura quanto l’installazione, senza interpretare mai abbastanza le
potenzialità di entrambe, rischiano di farlo scivolare nella sempre più scomoda
posizione dell’ornamento.
Nonostante una tale rimarchevole
assenza di nuovi mausolei e vestigia, negli ultimi anni l’accidentale
sincronismo di eventi (Public art projects ad ArtBasel), fiere (Expo
Shanghai),
retrospettive (Monumenta 2010 di Boltanski), collettive (Monuments in time, Michael Schultz Gallery,
Beijing) e rassegne (De/construction of monument, Sarajevo Center for Contemporary
Art) stanno nuovamente facendo riconsiderare la stordita accezione di monumento
a nobili censori,
di rilievo nel mondo dell’arte.
In quest’ultimo caso, De/construction
of monument è
stata organizzata nel 2004 a seguito del collasso dell’ex Jugoslavia, quando
nuove élite politiche stavano cominciando a riscrivere la storia dei loro Paesi. I ricordi
di quel che era cambiato, infatti, si stavano confondendo, i luoghi dovevano
essere rinominati, gli atlanti venivano alterati e, allo stesso tempo, nuovi
inni, nuove icone e simboli cominciavano a dilagare. In particolare, l’erezione
e lo smantellamento di monumenti era diventata una prova di una nuova presa di
coscienza, di una responsabilizzazione che guardava oltre la Storia e la sua
posizione di edificio totale. De/construction of Monument è nata, infatti, con l’intento di
opporsi a ogni tipo di manipolazione attraverso il processo di decostruzione.
Performance artistiche in spazi pubblici, discussioni aperte al pubblico,
workshop e numerose pubblicazione sul tema hanno perseguito l’obiettivo di
detonare l’ideologia di una radicata comprensione della storia attraverso i
soli cambiamenti dei modelli culturali.
Le modalità dell’azione artistica
pubblica che mettono in atto una funzione plurale e contraddittoria potrebbero
dunque diventare il grado zero dal quale il monumento (a lungo termine)
dovrebbe ricostruire le proprie basi.
complicati monumenti di rendere significativi complicati fatti sociali,
probabilmente ci si aspetterebbe che epifanie ideologiche potessero
formalizzare non-permanenze e sparizioni, cercando di integrare nelle strutture
una tensione di scambio tra la memoria individuale e l’oblio collettivo.
Artisti come Gordon Matta-Clark, Robert Smithson, Jochen Gerz, Valie Export e Anselm Kiefer, al contrario, hanno tentato di
astrarre il monumento da qualsiasi perversione ideologica precisamente
incorporando l’ideologia stessa e rappresentando di riflesso (senza
re-inventare) il monumento.
Da ricordare anche Unmonumental, allestita al New Museum di New
York nel 2008; mostra che, scegliendo oggetti d’arte di gruppo, omise
espressamente lo statuto della monumentalità. Opere di Isa Genzken, Martin Boyce, Jim Lambie e altri artisti hanno potuto far
riflettere sui ruoli delle singolarità nella fusione di più elementi, sulla
posizione anti-eroica della scultura, e, come ha suggerito il curatore
Massimiliano Gioni, anche su una certa non-monumentalità nella cosiddetta sculpture
of proximity. L’evento
non ha certo creato le basi per un manifesto anti-monumentale, ma ha invocato
una sorta di tipologia della monumentalità come necessario contrappunto, come
una dimensione che s’interroga sulle posizioni del fruitore dell’opera d’arte,
analizzando categorie quali la vicinanza e la distanza, l’esterno e l’interno,
il molteplice e il percepito.
Da citare, infatti, in completa
opposizione, il progetto Ornament and Pride presentato nel 2008 allo S.M.A.K.
di Gent, un
raro laboratorio visivo che ha estratto il monumento dal proprio complesso
usuale di connotazioni e lo ha trasformato. In questa rassegna il monumento ha esplicitamente
preso posizione contraria alla singolarità della propria esistenza
rappresentativa e ha rivolto nuovi quesiti sulla propria identità all’emergere
di decorazioni, materiali sperimentali e pattern, nuovi strumenti di estrema
visibilità nelle pratiche contemporanee. Come qualcosa che ingloba stili in
rapido cambiamento, adattabilità e astrazione, il concetto di ornamento si distanzia senza ambiguità dalla
durata, dall’unicità e dai valori del ricordo, divenendo esempio rimarchevole
di assenza, di vuoto della monumentalità.
A questo proposito sono stati
creati alcuni appuntamenti: collettive (Memorial to the Iraq War all’ICA di Londra), street
festival (Art Monument 2010 a Berlino) e ricorrenze (il muro di Maya Lin) che hanno inconsapevolmente
registrato l’erosione e l’instabilità dei luoghi atti alla monumentalità nel
contemporaneo, facendo emergere due punti di vista diversi. Dapprima questi
appuntamenti hanno sollevato questioni sulla possibilità dell’oggetto d’arte di
meritare il ruolo di monumento e poi hanno sfidato la sua capacità di fare da
ponte tra passato e futuro in un solo singolo posto: il qui. Secondo Laurent Liefooghe, i
monumenti sono “necessità impossibili” che, nella loro infernale difficoltà, diventano nodi problematici al
centro di decisive questioni sugli sbalzi della storia e sulle ideologie che
costituiscono o condizionano le comunità. La pratica monumentale contemporanea
potrebbe impossessarsi nuovamente di argomenti che portino alla luce le reali
capacità sovversive dell’arte politica di sviluppare un tipo di pratica che non
evita la possibilità di fallimento nel trasmettere i propri messaggi e che non
dissimula le proprie misure, sviando da ambizioni minori oppure diminuendo
magniloquenti scale di grandezza.
“Monumento, nel senso largo del
termine, non è necessariamente una scultura. Può essere un edificio, un’opera
letteraria, e finanche un elemento naturale. Non a caso anche gli artisti
invitati alla Biennale di Carrara hanno interpretato in senso molto largo la
tematica del monumento, o meglio del Post-monument, dell’attuale situazione in
cui dei monumenti, come dei valori, restano quasi solo le rovine.
Biscotti ha realizzato sì delle sculture, ma fatte di testi anarchici disposti
come impianti tipografici; Artur Zmijewski presenta un video in cui rende
“monumentale” la vita normale di lavoratori del marmo; Deimantas
Narkevicius addirittura un progetto audio collocato in uno spazio fatiscente.
Certo la tradizione monumentale più diretta è quella che vuole il monumento
come scultura, generalmente di carattere pubblico”. A parlare è Fabio Cavallucci,
direttore dell’edizione attualmente in corso della Biennale di Carrara,
quest’anno dedicata al tema del post-monumento.
In effetti è assai difficile dire
cosa è oggi “monumento”. Ma magari è più semplice identificare cosa non lo è
più? “La nostra società si muove su vie leggere e veloci. La precarietà e
l’immediatezza sono oggi più adeguate della durata e della solidità. Tutto ciò
è l’esatto contrario della monumentalità. Anche se poi – come dice Bauman in
un’intervista nel catalogo della mostra – nel tempo, anche solo per forza di
selezione naturale, alcuni reperti resteranno, e questi saranno inevitabilmente
i monumenti del futuro”, afferma Cavallucci. E, quando gli chiediamo cosa rende “monumento”
un’”opera”, continua spiegando che il monumento può essere anche frutto del
caso, ma che se è inteso come opera pubblica “bisogna ammettere che intenti,
dimensioni, utilizzi e committenze sono ancora gli elementi che ne determinano
la realizzazione. Solo che quei monumenti non sono più ormai nel campo
dell’arte. Sono semmai i grandi edifici che gli architetti stanno realizzando
nelle varie città del mondo”.
E dunque, ora che è diventato
questione da archistar e feticcio urbanistico-economico, cosa succederà al
monumento? “I nuovi valori non sono ancora definiti”, conclude il direttore della
Biennale di Carrara, “per cui in questa età di transizione tutto è
possibile, dai ritorni al passato alle spinte verso il futuro”.
In
memoriam delle biennali
La
Biennale di Carrara
ginevra bria
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
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