NATURA SECONDA |

di - 24 Gennaio 2008
Ai Garden Court Apartments, Heloise conduceva quella che giudicava una rude esistenza western in un appartamento holywoodiano in stile Rinascimento (Gore Vidal, Hollywood, 1990).

È possibile riconoscere tutta una serie di artisti emergenti nel panorama internazionale che si sono concentrati, negli ultimi anni, sul concetto di paesaggio e di natura. Da Peter Doig, scozzese di Edimburgo cresciuto in Canada, che nei suoi dipinti mette in scena un mondo incantato e psichedelico, in cui Caspar David Friedrich incontra i Soft Machine, ripensamenti meditabondi delle origini del modernismo e delle varie Secessioni artistiche, al nostro Nico Vascellari, per il quale la natura e i boschi -teatro delle performance e ricettacolo dei materiali- sembrano essere il rifugio dall’intrico dei riferimenti culturali e dei debiti ideologici. Viene subito da pensare, in proposito, al bellissimo e incompreso Last Days (2005) di Gus Van Sant, in cui la foresta e la cascata che circondano l’enorme villa decadente rispecchiano e amplificano la confusione, l’entropia esistenziale di un Kurt Cobain un po’ troppo caricaturale: del resto, il riferimento alla natura pre-culturale era stata una costante nei testi dei Nirvana e del grunge in generale, basti pensare a Melvins e Husker Dü su tutti.
In realtà, da almeno quarant’anni il paesaggio prediletto dagli artisti è proprio quello della cultura e dei media. È questa la natura seconda in cui vivono gli esseri umani -e gli autori- all’inizio del nuovo millennio. A partire da Andy Warhol, e poi più significativamente con gli appropriazionisti newyorkesi che si affacciano sulla scena artistica verso la fine degli anni ‘70 (Cindy Sherman, Sherrie Levine, Richard Prince, Robert Longo), cinema, pubblicità e moda sostituiscono senza soluzione di continuità il concetto tradizionale di natura. Questi artisti stabiliscono lo standard a cui tutte le generazioni successive si rifaranno: il riuso e il remake si concentrano sul paesaggio mediatico e auratico che circonda la vita quotidiana contemporanea, in cui andrà cercato anche il sublime postmoderno, pendant di quello settecentesco alla Edmund Burke.

Del resto, anche la riflessione fotografica tardomodernista e concettuale sul paesaggio contemporaneo era stata fortemente intrisa di elementi antropologici e popolari, sulla scorta del Learning from Las Vegas (1961) di Robert Venturi: così, i parcheggi messi in serie da Ed Ruscha e gli elementi catalogati da Bernd e Hilla Becher, così come le Houses di Dan Graham, condividono un interesse molto preciso per i mutamenti della società, per un landscape/mindscape affettivo che sta pian piano scomparendo.
Non a caso, allievi dei coniugi Becker all’accademia di Düsseldorf saranno Andreas Gursky e Thomas Demand, i due più autorevoli esponenti di quella scuola artistica che traghetta definitivamente il paesaggio all’interno del territorio culturale. Senza dimenticare gli sviluppi americani della fotografia concettuale, soprattutto con Jeff Wall e la sua rilettura epica del paesaggio impressionista, dunque delle origini del modernismo, a partire dalla scomposizione della realtà.Ma sono gli Untitled Film Stills (1977-80) di Cindy Sherman, insieme alla serie Men in the Cities di Robert Longo e alle primissime prove di Richard Prince a segnare lo scarto essenziale rispetto ai rimasugli tardoromantici degli anni ‘70, e nel contempo alle nostalgie e alle vaghezze neoespressioniste dei primi anni ‘80. Cogliere l’aura di un’epoca del passato più o meno recente, non appartenente al mondo reale ma alla storia della fiction cinematografica (Sherman), o alterare il contorno di una fotografia glamour (Prince), significa appropriarsi di un periodo attraverso gli elementi stilistici e scenografici. Vale a dire, gli elementi paesistici.

Perciò, la natura diviene quella della storia e della memoria: l’assassinio di Kennedy, il Watergate o gli spazi e le atmosfere di Un bacio e una pistola (Robert Aldrich, 1955) si trasformano così in luoghi, siti di intervento e rappresentazione, al pari di una collina o di un cielo olandese del Seicento.
Un grande teorico del cinema, Stanley Cavell, aveva colto perfettamente questo processo in tempo reale, quando già nel 1971 scriveva: “Sin dall’inizio della sua storia, il cinema ha scoperto la possibilità di richiamare l’attenzione sulle persone, su alcune parti delle persone e sugli oggetti; ma è ugualmente una possibilità del medium cinematografico non richiamare l’attenzione su di essi ma, piuttosto, lasciare che il mondo appaia, lasciare che le sue parti richiamino l’attenzione su se stesse a seconda del loro peso naturale. Questa possibilità è quella meno esplorata tra le due. Dreyer, Flaherty, Vigo, Renoir e Antonioni sono i suoi maestri”. [1]

Sebbene siano passati quattro decenni dall’inizio di questa grande trasformazione, si può dire che siamo ancora all’inizio di un intero percorso: ce lo confermano i periodici ritorni e ripescaggi di sensibilità che si credevano morte e sepolte. Ma il passaggio è irreversibile, e riserva sicuramente alcune future sorprese sulla relazione reciproca tra artista e mondo.

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christian caliandro

[1] S. Cavell, The World Viewed. Enlarged Edition, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London 1979, p. 25.


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 44. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

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