NEW ITALIAN TRAGEDY |

di - 9 Luglio 2009
Gli italiani stanno raggiungendo il culmine dell’idiozia.
Concionano. Berciano contro le tasse. Non si smuovono.
Non intuiscono la crepa. L’orizzonte di deflazione
psichica a cui stanno correndo incontro,
con gioiosa incoscienza.
Giuseppe Genna, Italia De Profundis (2008)

I nomi sono di fantasia
ma la realtà che li ha prodotti è fedele
Francesco Rosi, Le Mani sulla Città (1963)

Nell’anno di grazia 2009, tutti gli indizi dicono che l’Italia pare inevitabilmente condannata a sorbirsi una massiccia dose di “italianità”.
Dalla querelle sull’Alitalia ai cinepanettoni furbescamente ritardatari, dalle proteste per i mancati riconoscimenti al cinema “d’autore” italiano alle “alte” elucubrazioni letterarie, mai come in questo periodo la questione dell’essere italiani è stata oggetto di feroci dibattimenti. Così, per sapere chi siamo dobbiamo chiedere a Riccardo Scamarcio e a Wu Ming, dato che la nostra identità nazionale pare improvvisamente in pericolo. E forse il problema è proprio questo: che l’italianità non è mai stata indefinita e sbiadita come oggi, nel momento in cui viene stropicciata come la bandiera in un vecchio disco di Loredana Berté (Made in Italy, 1980). Alla base di questo rinnovato “patriottismo” e accento continuo su tutto ciò che odora anche solo lontanamente di Bel Paese, ci potrebbe dunque essere proprio la paura di scomparire, di perdere questa benedetta identità, magari sotto la spinta inarrestabile della Crisi-Maelström.
Andrea Camilleri ha provato a dare qualche spiegazione del “cedimento strutturale” affidandosi alla storia della letteratura e alle caratteristiche sociologiche dell’italiano medio [1]. D’altra parte, se tutti ci dicono che arretriamo, se il declino non è solo quello americano ma qualcosa che sentiamo tristemente nostro – e senza proprio niente di epico -, qualche motivo ci sarà. E vediamo allora di analizzarne qualcuno, senza pretese di esaustività, ma con un occhio al dialogo tra i più o meno recenti prodotti culturali.
Procediamo con ordine. Italians, il film di Giovanni Veronesi con Carlo Verdone e Sergio Castellitto, oltre a Scamarcio, era stato preceduto dall’uscita del libro omonimo di Beppe Severgnini, che naturalmente non c’entra niente. O forse sì, dato che la rubrica sbertuccia in modo tutto sommato innocuo vizi (tanti) e virtù (poche) di un popolo fondamentalmente irriducibile. Il sottotesto è il solito, “Italiani brava gente”: anche se, poi, il Paese reale cantato dagli Afterhours in versione sanremese non dà esattamente questa sensazione.
Come ritratto della società italiana, una rubrica – poi divenuta libro di successo – come Cafonal è infinitamente più ficcante e impietosa: Roberto D’Agostino e Umberto Pizzi – quest’ultimo incredibile trait d’union con la Dolce Vita e gli anni ‘60 – hanno creato insieme una sequenza d’immagini (appropriatamente digitali) potenzialmente infinita, e molto più efficace di tante dotte analisi per spiegare cosa voglia dire oggi essere italiani, e soprattutto italiani “notevoli”. La subalternità, la piaggeria, la cortigianeria, la disperazione strisciante sono rappresentate in una maniera che è già potenzialmente storicizzata.
Pendant ideale di quest’opera è ovviamente il caso letterario degli ultimi due anni, Gomorra (2006). Il “romanzo non-finzionale” di Roberto Saviano è stato sviscerato e distorto in tutti i modi possibili e immaginabili dall’impianto spettacolare: è appena il caso di menzionare le penose polemiche seguite all’esclusione del film di Garrone dalla cinquina dei candidati agli Oscar stranieri, con tanto di strampalate teorie cospiratorie e paranoidi.

Gomorra, però, ha avuto tra i suoi molti meriti anche quello di portare alla luce alcune importanti questioni che riguardano il dibattito sulla letteratura (e sulla produzione artistica in generale) italiana, come non accadeva forse da qualche decennio. Non che queste riflessioni non fossero state già avviate da tempo, ma certamente il libro di Saviano ha funzionato da potente traino: ha fornito infatti l’oggetto definitorio che mancava, ma senza il quale non si poteva proseguire.
Così, a gennaio Wu Ming ha pubblicato New Italian Epic, versione aggiornata di un saggio presentato l’anno prima e diffuso sul sito di “Carmilla”, che disegna attorno proprio a Gomorra e ad altri libri italiani recenti una “nebulosa” letteraria e artistica caratterizzata da un rinnovato approccio epico, appunto. Vale a dire, serio e privo della facile e un po’ vacua ironia che ha caratterizzato gran parte della letteratura italiana degli ultimi vent’anni: “Le opere del New Italian Epic non mancano di humour, ma rigettano il tono distaccato e gelidamente ironico da pastiche postmodernista. In queste narrazioni c’è un calore, o comunque una presa di posizione e assunzione di responsabilità, che le traghetta oltre la playfulness obbligatoria del passato recente, oltre la strizzata d’occhio compulsiva, oltre la rivendicazione del ‘non prendersi sul serio’ come unica linea di condotta” [2].
Pur nell’equivoco di confondere, ancora e sempre, il postmoderno con il postmodernismo e soprattutto esclusivamente con la pratica del pastiche (un’interpretazione, peraltro, molto “italiana”, è proprio il caso di dirlo), va detto che le opere più recenti degli autori raggruppati nel saggio – Valerio Evangelisti, Giuseppe Genna, Giancarlo De Cataldo, Wu Ming e lo stesso Saviano, solo per citarne alcuni – hanno tutte come obiettivo quello di comprendere prima, e di ritrarre poi, usando tutti gli strumenti che l’allegoria mette a disposizione, la realtà italiana inserendola in un quadro epocale e globale. La sensazione è quella di essere anni luce lontani dalla versione consolatoria della “giovine Italia” che viene fuori dalle varie notti prima degli esami e muccinate (ormai più Silvio che Gabriele, ma fa lo stesso), di trovarsi finalmente in un territorio sconosciuto e per questo interessante, a tratti anche minaccioso. Di respirare un’aria finalmente nuova, che non potrà non influenzare anche il vicino territorio dell’arte contemporanea (anche se, per dovere di cronaca, avvisiamo i lettori che in questo campo di opere NIE non se ne vede nemmeno l’ombra).
E l’attesa che qualcosa succeda si va facendo ormai spasmodica, pure nell’apparente immobilismo e narcosi generale. Qualcosa che abbia a che fare con la ridefinizione dell’italianità e con il compimento di una trasformazione che è insieme antropologica, sociale e storica: “L’Italia non sta affatto regredendo: sta al contrario avanzando. L’Italia, in questo momento, è la punta di diamante del mondo sviluppato nell’accelerazione verso la trasformazione antropica impulsata da quella che si potrebbe definire ‘malattia occidentale’ e che consiste nell’autoespropriazione dell’umano, attraverso gradi sempre più intensi di assunzione di finzione non retroattiva…” [3].

[1] Andrea Camilleri, Cos’è un italiano, “Limes”, 24 febbraio 2009, temi.repubblica.it/limes/camilleri-cos-e-un-italiano/.
[2] Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Einaudi, Torino 2009, p. 23.
[3] Giuseppe Genna, Italia De Profundis, minimum fax, Roma 2008, p. 68.

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christian caliandro


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 57. Te l’eri perso? Abbonati!

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  • Bisognerebbe guardare negli occhi la propria Natura e poi superarla. La volgarità sta nel mascherare i complessi di inferiorità da una fare sofisticato e mitteleuropeo. Pultroppo gli operatori culturali di oggi (ad ogni livello) si sono formati nella frustrazione di una cultura asfittica. E oggi ce la fanno pagare. Ma bisogna anche smetterla con questa lamentela infinita. Mi sembra troppo facile sparare su quella che tutti credono sia un'ambulanza. Quest'italia-ambulanza e tutte queste lamentele offrono preziose "alibi per non agire" ad ogni livello culturale. E' ora di smetterla.

  • Ho trovato molto interessante questo articolo anche se non forse della concretezza di cui avrei bisogno. La citazione finale di Genna mi sembra avvicinarsi ancora di più al nocciolo della questione ma sempre con asserzioni che hanno un qualcosa di ineffabile. Vedete sto cercando disperatamente di capire ancora il paese che mi circonda e di cui sono cittadino. Finite le scuole superiori alla fine degli anni ottanta feci l'errore (o forse no) di andare a studiare all'estero e nonostante sia rientrato più stabilmente da diversi anni ho forse perso il nesso importante tra le due repubbliche o comunque qualche passaggio cruciale. Potrebbe pure essere legato al fatto che non ho la televisione da oltre vent'anni, ma non so. Non è solo la letteratura, la notte che l'Italia vinse gli ultimi mondiali partecipai anch'io ai fasti, ma confesso di essermi sentito perso tra questi giovani, così come sono perso tra i nuovi adulti. C'è qualcosa che non mi convince un che di occidentale-generico-pseudo-americano, un che di plastica. Provo la stessa sensazione quando vedo i bambini uscire di scuola. Ho anche dedicato alla questione, e alla presente penuria economica, una mia opera (http://www.rebusart.net/ee/photo.php?photo=452&exhibition=22&u=83|18| ), ma non sono certo più vicino a mettermi il cuore in pace. Proprio io, che non sono nemmeno un italiano DOC, mi sento più italiano di questi miei connazionali.

  • Questo articolo è scritto con il solito modo leccato, leccoso e ruffiano di mettere giù un mucchio di frasi. Dietro questo solito uso di (solite) parole "che la gente vuole sentire".
    Articolo che poi alla fine non dice nulla. Non critica, da alcun punto di vista diverso. Se stesso per primo si lamenta lamentandosi che "gli Italiani si lamentano".

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