No-Profit Italia

di - 12 Marzo 2012
In un recente articolo firmato da Aldo Bonomi apparso sul “Corriere della Sera”, si parla di Milano, città che viene descritta come esempio per aver retto all’urto della crisi degli ultimi anni, con «un’intelligenza sociale che però ha nel suo Dna il problema dell’inclusione». Cosa significa? Che Milano, ancora oggi, è la città più disuguale del Paese, con il reddito maggiore concentrato nelle mani di pochi eletti, ma dove emerge forte la necessità di una coesione sociale più forte che, anche in rapporto al periodo economicamente poco felice, funzioni da trampolino di lancio per tentare di gettare solide basi per reti culturali. Una rete che sia di collaborazione tra pubblico e privato, trasversale nella funzione e avvezza ad operare in un clima di scarsità di fondi.
In questo caso il discorso è quasi puramente politico, ma è una necessità che riguarda da vicino anche l’ambito delle arti visive, che negli ultimi anni più che mai a Milano, e in Italia in generale, ha visto nascere una serie di piccole eccellenze completamente autogestite. O, talvolta, in minima parte finanziate da denaro pubblico.
Nel capoluogo lombardo una delle realtà no-profit più interessanti è “Officina Temporanea”, che ha casa in zona Ventura-Lambrate, a pochi passi dalle gallerie di Francesca Minini, Massimo De Carlo e Prometeo. Nel 2010, durante il Salone del Mobile, vennero fuori con il primo progetto, ma l’anno scorso hanno alzato il tiro: una mostra-evento in un cantiere di 1500 metri quadrati che portasse alla proprietà un ottimo rientro di visibilità e giustificasse lo sforzo economico nel sostenere l’iniziativa. E, a parte l’originalità della location (un nuovissimo complesso residenziale a pochi passi dalla stazione di Lambrate), un modo per cercare di svincolare un altro grave problema per chi fa cultura “indipendente” nelle grandi città: il costo degli spazi. In qualche modo si supporta, in senso inverso, quel fenomeno che in inglese si definisce “gentrification”, che a Berlino ha fatto scuola: affittare ad artisti e a creativi spazi a bassissimi prezzi per risanare interi quartieri che poi, via via, vengono espropriati dai loro originali inquilini per lasciare posto alla nuova borghesia. A Milano, in realtà, il fenomeno pare essere molto più rapido, e la “gentrificazione” si muove come sui binari di un tempory store: io ti pago il progetto, tu mi fai pubblicità.
«Una modalità per sostenere lo start-up di miriadi di associazioni culturali e non, che costituiscono una risorsa imperdibile nell’innovazione economica, ma che da sole non hanno la forza per entrare in un sistema dall’accesso difficile e troppo selettivo» spiegano i membri di “Officina”. Anche perché spesso, i progetti legati all’arte contemporanea, al design e alla creatività in genere, restano anche senza l’ombra di un patrocinio – che ai Comuni non costerebbe assolutamente nulla – ma darebbe in qualche modo la presenza “ufficiale” dell’attenzione della città, e degli “alti ranghi” della cultura, anche alle manifestazioni più light che determinano in maniera fondamentale l’humus di una metropoli.
Ma mentre l’approccio di “Officina Temporanea” è partito proprio dal mettere in discussione il modello assistenzialista dell’apparato della cultura italiana, a Milano ci sono altre realtà che invece una “casa” pubblica dovrebbero, e vorrebbero, averla. Stiamo parlando di “Peep-Hole”, ente no-profit decisamente “di lusso”, che sopravvive grazie alle donazioni effettuate da artisti che credono nel progetto di diffusione del contemporaneo che lo spazio propone come propria mission. Vincenzo De Bellis, curatore dell’associazione rimarca invece  il fatto che le istituzioni pubbliche in Italia non sostengono spazi come questi: «Peep-Hole è nata sul modello di Kunstverein tedeschi e degli spazi a progetto anglosassoni, ed è sostenuta da un gruppo di oltre 100 artisti – tra cui Giulio Paolini, Alberto Garutti, Massimo Bartolini, Eva Marisaldi, Dhan Vo – che, con la donazione dei loro lavori, hanno consentito di istituire un fondo di gestione dello spazio».
Ma anche in questo caso “lo spazio”, inteso proprio come luogo fisico, ha grandi costi di gestione e la programmazione e il parterre di “Peep-Hole” è tutt’altro che periferica nel sistema dell’arte: «C’è la necessità di rendere ufficiale, da parte delle istituzioni, il ruolo di centro d’arte pubblico di Peep-Hole. Il sostegno da parte della città con un piccolo contributo e l’assegnazione di uno spazio architettonico è uno step sul quale stiamo lavorando» continua De Bellis. E ci stanno lavorando anche a BASE, a Firenze, no-profit nato da artisti per artisti nel 1998, che attualmente sta cercando di avere un contributo della regione per poter proseguire un’attività che vanta all’attivo mostre di Sol LeWitt, Hans Shabus e Liliana Moro, solo per fare tre nomi, e che per il  prossimo futuro ha in cantiere iniziative che coinvolgono Pipilotti Rist e Martin Creed. Una programmazione di tutto rispetto, insomma, difficilmente riscontrabile in istituzioni più ingessate, che però rischia di cadere in disgrazia se non supportata da una mano ufficiale.
Tornando a no-profit più giovani, ci spostiamo a Padova, dove Superfluo – potete leggerlo sia come superfluo o come super-fluo – invece, il patrocinio del comune ce l’ha, e utilizza per le sue mostre temporanee i negozi sfitti al piano terra di un parcheggio multipiano – Central Park – in zona stazione, dati in usufrutto temporaneo da un’agenzia immobiliare. Un po’ come è accaduto al quartiere Pigneto di Roma, a gennaio 2011, quando alla proposta fatta da Edoardo Rosati, della nota famiglia di concessionari automobilistici, di fare un intervento nell’ex officine sfitte di via Ghisleri, l’artista Gian Maria Tosatti ha risposto rilanciando un progetto che ha coinvolto nove curatori, quattro centri no profit  e quattro artisti che realizzassero delle performance.
Anche qui, come oggi a Padova, si è trattato di un’azione di “promozione” a costo zero che però, in luoghi come Milano, non potrebbe mai avvenire perché «sempre troppo innamorata della sua immagine di capitale dell’individualismo competitivo» tornando alle parole di Bonomi. Figuriamoci se un negozio o un appartamento sfitto sotto l’egida di un’immobiliare possano essere dati in mano ad enti culturali.
Come fare, dunque, a mantenere, nei casi più piccoli, un’attività no-profit? Per esempio, nel caso padovano, cercando di vendere un chilo di “superfluo”. Esattamente, un mattoncino firmato del costo di dieci euro, acquistabile dal sito dell’associazione. Mentre “Officina Temporanea”, invece, rimarca un modello statunitense: «É necessario snellire la burocrazia. Il privato deve interessarsi al no-profit poiché può trarne benefici, sia immediati che nel tempo. L’apparato deve muoversi su risorse meno “assistenzialiste”». Di certo non sarebbe male poter puntare anche su sgravi fiscali, su donazioni che attualmente non sono possibili da parte dei liberi cittadini e che probabilmente farebbero non poca differenza nell’economia di un costellazione di spazi che devono davvero ingegnarsi per riuscire, e non sempre, a sopravvivere. E Milano ancora una volta potrebbe essere la cartina tornasole per la sua offerta e la varietà presente nel suo tessuto urbano: «È un grande laboratorio del fare società dentro la crisi, perché luogo di insediamento dei flussi e di atterraggio delle migrazioni globali», chiosa ancora Bonomi. E con un sillogismo piuttosto scontato è necessario, per l’ennesima volta, fare presente che i flussi generano ricchezza, che l’arte è un flusso, ovvero che la ricchezza è arte. Anche quando si tratta di no-profit.

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  • Questo articolo è davvero molto incoraggiante.
    Faccio parte di un'Associazione di Promozione Sociale (L. 383/2000) chiamata "I GRAFFIALISTI", e organizziamo ogni anno un "meeting artistico" dal titolo OPEN GALLERY INDIPENDENZA.
    Gli "Artisti-Espositori", senza alcun esborso di denaro, possono mostrare le loro opere lungo una caratteristica stradina del centro storico della città marinara (Gaeta), usufruendo, sempre a titolo gratuito, di una serie di servizi e strumenti messi a disposizione dall'Associazione (che ha anche una propria galleria: la çirò Gallery Atelier).
    Beh, che dire, anche se Gaeta non è proprio una "metropoli", cerchiamo di far quel che si può!
    Ancora complimenti per la notizia!

    Ivan (www.graffialisti.com)

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