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NON CI RESTA CHE PIANGERLO
Politica e opinioni
di santa nastro
Da Don Chisciotte a Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Passando per il Marchese del Grillo, il Borghese piccolo piccolo e La Grande Guerra. C’è l’Italia, anche quella di oggi, nei grandi capolavori di Mario Monicelli. Che ebbero il grande pregio di stimolare una riflessione malinconica e realista sul Paese, e di averci fatto ridere...
Da Don Chisciotte a Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno. Passando per il Marchese del Grillo, il Borghese piccolo piccolo e La Grande Guerra. C’è l’Italia, anche quella di oggi, nei grandi capolavori di Mario Monicelli. Che ebbero il grande pregio di stimolare una riflessione malinconica e realista sul Paese, e di averci fatto ridere...
di Santa Nastro
moderni!”
Brancaleone
Tognazzi nel film Amici miei, al capezzale del giornalista Giorgio
Perozzi (Philippe Noiret), mentre l’amico in fin di vita buggerava il sacerdote
intervenuto per l’estrema unzione con l’ultima “supercazzola”: “Ma sta morendo veramente?“,
subodorando l’ennesimo scherzo.
Ho pensato a uno scherzo anch’io il 29 novembre aprendo il giornale
online e leggendo che Mario Monicelli, uno dei pochi rimasti della vecchia
guardia, aveva deciso di togliersi la vita lanciandosi dalla finestra
dell’ospedale dov’era ricoverato. Soprattutto ho pensato a tutti i film che non
avrebbe più potuto fare, un pensiero da niente, dal momento che Monicelli già
da tempo aveva lasciato il cinema. Peccato, perché avrei tanto voluto sapere
come avrebbe interpretato l’Italia di oggi (quel Paese che non aveva esitato a
provocare nelle sue recenti apparizioni ad Annozero e in Raiperunanotte),
proseguendo nel progetto ambizioso di raccontare l’identità nazionale,
declinata attraverso maschere e vicende eterogenee.
È stato un percorso coerente, il suo, snodatosi attraverso le
epoche della Storia, con, come sottotesto, il nostro sentire comune.
Brancaleone (L’armata Brancaleone,
Brancaleone alle crociate) è un uomo del Medio Evo. Un po’ Don
Chisciotte, un po’ Orlando è un eroe candido, con grande abilità da guerriero e
poco cervello. Senza paura, ha le macchie sui vestiti e nel blasone. In un
torneo rusticano per difendere il Santo Sepolcro dall’invasione dei mori viene
fuori la sua vera condizione. È un popolano, un norcino, senza casata e senza
feudo. Ecco perché non può gareggiare (pur essendo il migliore), partecipando
alla Storia e alla società. E mentre le sue vicende si alternano nella
presentazione della varietà dei tipi umani, dal nano al bizantino dissipato
(magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté), discretamente sullo
schermo scorrono pennellate di grande erudizione, dai grilli della glittica
gotica raccolti ne Il Medio Evo Fantastico da Jurgis Baltrušaitis, all’albero della
vita, dalla letteratura romanza alla metrica popolaresca del teatro dei pupi
siciliani (recitato da Adolfo Celi), fino ai dialoghi con la luna e con la
morte di Brancaleone, alla discussione del sesso degli angeli e della Omoiusia (con jota o senza), al racconto
dei traumi provocati dalla Santa Inquisizione e delle lotte intestine alla
Chiesa tra papi e antipapi.
Non molto differente è Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno.
Anche qui, sviluppando le avventure di un contadino furbo e buffo (Tognazzi)
alle prese con Alboino, re goffo ma di animo buono (Lello Arena), Monicelli si
diverte a zigzagare fra la storia, raccontando le rivendicazioni delle
femministe rappresentate da un gruppo di nobildonne decise a tutto, anche a
ricattare gli uomini con il proprio sesso (imprigionato in una malfatta cintura
di castità), ma anche le pagine di Teofilo Folengo con le sue Maccheronee, che
non a caso comprendono i 24 libri del Baldus, con il suo eloquio saggio
e plebeo.
E che dire de Il Marchese del Grillo, dove la burla del carbonaro è ripresa pari pari da quella
analoga organizzata da Filippo Brunelleschi nel 1409? Come il protagonista del
film, il grande architetto, famoso per i suoi scherzi, fece credere a un
legnaiolo di essere un’altra persona. Onofrio del Grillo, che nel film porta il
volto di Alberto Sordi, è la coscienza, nera nell’animo e decadente e sbracata
nei costumi, della crisi culturale, politica e sociale che annega nei piaceri
della carne, nel sangue e nell’ostentazione dei privilegi del ceto nobiliare (“Io
so’ io e voi non siete un cazzo!”)
il destino di una terra contesa, tra saccheggi e razzie, in un susseguirsi
eterno di interessi oltreconfine (“E come potevamo noi cantare con il piede
straniero sopra il cuore?”,
Salvatore Quasimodo). Onofrio, come gli sgarrupati Oreste Jacovacci e Giovanni
Busacca (Sordi e Vittorio Gassman) de La grande guerra, vive con
insofferenza e senza partecipazione cause non proprie. Il primo lo manifesta
con le burle, ma anche accogliendo all’inizio con gioia, poi con disincanto le
promesse che spirano dalla Parigi mitteleuropea. I secondi se la danno a gambe
in ogni occasione, ma poi di fronte alla manifestazione di uno stereotipato
razzismo austriaco nei confronti degli italiani compiono un atto eroico dando
la vita e salvandola a tutti i commilitoni.
Ma l’atmosfera che regna nel cinema nostrano è sempre fosca,
malgrado le apparenze carnevalesche, e il sacrificio dei due protagonisti
resterà nell’ombra. Altro che gli eroi americani, con le bandiere che
garriscono al vento, le lacrime agli occhi e i funerali di Stato. Per questi
due coraggiosi non resta manco un ricordo, solo una battuta sarcastica (“E
quei due fannulloni se la sono scampata anche stavolta!”). Come d’altronde accade
nella vita. E succede in maniera decisamente più marcata in Un borghese
piccolo piccolo, affresco spietato degli anni ‘70 e degli italiani. Peccato
che di questa impietosa adesione al reale spesso se ne siano accorti in pochi,
perché il grande errore e il grande regalo del cinema di Mario Monicelli è
stato quello di farci anche ridere.
Omaggio
a Monicelli
santa nastro
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 70. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]
Beh, mi sembra un articolo fuori tempo massimo. E poi se non ricordo male ce n’è stato un altro subito dopo la morte del maestro. Attenti ai refusi e agli errori. Già nell’introduzione c’è un “che” al posto “di”.