Si interpretano gli eventi, si dipingono
scenari, si fanno previsioni, tutto a uso e consumo di operatori, collezionisti
e quanti, nel sistema dell’arte, nel tentativo di riorganizzarsi e di ritrovare
una certa stabilità, non possono permettersi passi falsi o mosse sbagliate.
Quello dell’arte è sempre stato, per sua
stessa natura, un settore di confine, tendenzialmente ambiguo, che mescola
sacro e profano. Il collezionismo stesso porta in sé i geni della
contraddizione, dacché persegue il possesso di ciò che tende all’universalità,
l’opera d’arte appunto.
L’oscillazione tra valore culturale e
valore commerciale legittima l’autodeterminazione del mercato dell’arte,
l’essere al contempo dentro e fuori la sfera propriamente economica.
Eppure, mai come negli ultimi anni si è
assistito all’esercizio della speculazione intorno ai numeri. Ma quali numeri?
Il punto è questo: gli unici riferimenti misurabili riguardo all’andamento del
mercato dell’arte, i soli realmente storicizzati sono quelli riguardanti i
risultati delle case d’asta. Volumi d’affari, tassi di crescita e decremento,
distribuzione geografica, performance per settori individuati o per singoli
artisti: è sulle analisi derivanti da questi dati che il mercato si orienta.
Ma quanta parte del mercato dell’arte è
realmente rappresentata da questi indici? L’andamento delle aste è una fetta
dell’economia legata al collezionismo, ma non costituisce certamente tutta
l’economia e neppure la principale.
Il grande impulso dato negli ultimi
decenni al settore culturale e al commercio di opere d’arte ha moltiplicato non
solo i prezzi delle opere ma in modo esponenziale anche i servizi, le attività,
le imprese, le gallerie. E lo ha fatto a livello globale, superando il
tradizionale monopolio occidentale. Appare evidente che stabilire lo stato di
salute dell’economia dell’arte dopo la crisi, considerando set di misure
relativi alle sole case d’asta (molte delle quali neppure contemplate perché,
ad esempio, troppo piccole o circoscritte in aree periferiche), appare
quantomeno pretenzioso.
L’ultimo rapporto dell’OMBA –
Osservatorio sul Mercato dei Beni Artistici di Nomisma presentato ad Arte Fiera
di Bologna ha stimato in quasi 2 miliardi di euro il giro d’affari dell’arte in
Italia nel 2008, poco oltre il miliardo quello del 2009. In questi dati il
“peso” delle case d’asta è all’incirca del 30%. E, si badi bene, in questi
numeri è considerato il valore derivante dalla compravendita di opere d’arte,
non certamente l’indotto connesso. Si dirà che misurare l’indotto è altra
questione, che sarebbe impresa ciclopica, tuttavia è bene riflettere sul
credito assegnato a un’attività che rappresenta in fondo solo la punta
dell’iceberg, un gradino appena del complesso dell’economia legata alle
transazioni di opere d’arte. Della quale, per di più, si considera solo una
fetta minoritaria, inferiore a un terzo.
A parte alcuni lodevoli tentativi come
quello di Nomisma, che potrebbe testimoniare sulle difficoltà oggettive di
ottenere dati certi e misurabili da un settore tendenzialmente così
frammentato, diversificato e in parte poco trasparente,
maggioranza dei casi gli analisti si limitano a un’astrazione, una metonimia
impropria, una parte che non rappresenta affatto il tutto. È come pretendere di
valutare il mercato del Parmigiano Reggiano dop basandosi sul solo consumo al
ristorante.
La grande quantità di informazioni resa
disponibile a tutti attraverso il web è certamente stata una conquista
importante e ha reso popolare il mercato dell’arte, aprendo anche le porte a
nuove sacche di collezionismo potenziale. Ma quantità e qualità faticano ad
andare a braccetto e pertanto l’informazione diffusa ha spesso carattere
superficiale, parziale.
Americans for the Arts è
un’organizzazione non profit statunitense che da cinquant’anni opera nei più
disparati campi, promuovendo le attività culturali e servendo oltre 150mila tra
membri e organizzazioni associate. Fra le sue attività vi è proprio quella di
cercare di analizzare a 360° dell’industria legata al mondo dell’arte, tenendo
conto di tutto ciò che spesso viene trascurato o contabilizzato a parte.
Milioni di artisti, centinaia di migliaia di aziende e non profit, agenzie,
associazioni, fondazioni e via dicendo. Una galassia complessa che ruota
attorno all’opera d’arte e della quale Americans for the Arts ha fornito la sua
visione, nel rapporto annuale da poco pubblicato e relativo al 2009. Non è qui
il luogo di entrare nel dettaglio, ma soltanto di rappresentare i rischi
connessi alla diffusione di una realtà parziale intorno all’industria culturale.
Tra il 1998 e il 2007 negli States si è
assistito a un costante aumento delle imprese individuali e delle
organizzazioni operanti nell’ambito della cultura, che hanno conseguentemente
generato occupazione e fatto aumentare la domanda di istruzione nei campi
connessi. Ciò nonostante, inaspettatamente la partecipazione del pubblico a
eventi artistici non solo non è cresciuta in misura direttamente proporzionale,
ma addirittura – se intrecciata al dato del naturale incremento della
popolazione – non sembra esser cresciuta affatto. Si è parlato molto della
partecipazione del pubblico agli eventi d’arte, si è addirittura inventato il
concetto di artentertainment, eppure le visite ai musei americani
mostrano un trend negativo costante dal 2005.
Altro dato interessante registrato dal
rapporto è la tendenza alla diminuzione del sostegno sia pubblico che privato
alle associazioni non profit negli ultimi anni: appaiono in diminuzione dal
2008.
che ora si traduce in una vera e propria emergenza trasversale che attiene la
sostenibilità delle non profit già in difficoltà, ma anche delle aziende sorte
sull’onda del boom e oggi alle prese con la recessione. Inevitabile a questo
punto è considerare il problema occupazionale: nonostante l’aumento del numero
di artisti indipendenti, la disoccupazione nell’industria culturale è
raddoppiata rispetto ad altri settori professionali. Emerge chiaramente come a
livello economico i contraccolpi derivino non solo dagli sboom ma anche dal
boom, quando non vi siano tempi utili per garantire l’assestamento di un
settore e il completamento dei processi di cambiamento necessari.
Il rapporto si conclude invitando a
considerare indici complessi di livello superiore, che riescano a rappresentare
la reale competitività sul piano economico del settore culturale. In
quest’ottica, Americans for the Arts arriva a sostenere che la crisi
dell’industria culturale ha origini più lontane di quanto non si creda e che la
sua competitività abbia cominciato a scricchiolare già sul finire degli anni
’90.
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Interessante. Una sovraproduzione di contenuti standar-mediocri da un lato estendono la diffusione, ma dall'altro creano confusione, superficialità di fruizione e paralisi. Se ci sono 100 mostre in citta' ugualmente promozionate, le 3 buone verranno soffocate e disincentivate per il futuro. Invece di contrapporsi a questa tendenza fisiologica, bisogna avere format che la assimilino, la usino e la superino.
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