PARANOID ANDROID, O IL CINEMA DELL’INSENSIBILITÀ |

di - 6 Marzo 2008
Ci sono due film usciti di recente in Italia che rappresentano, in ogni loro aspetto, una nuova forma di sensibilità (o di insensibilità): si tratta di Paranoid Park di Gus Van Sant e di Eastern Promises (La promessa dell’assassino) di David Cronenberg. La differenza di stile e di contenuto tra le due opere non potrebbe essere più grande, ma proprio questa distanza fa emergere chiaramente le affinità e le analogie più profonde.
Nel primo film, ideale seguito di Elephant (2003), la storia banale di un omicidio, compiuto più per imprudenza che per volontà, sembra solo il pretesto per costruire un viaggio da incubo dentro un’anima giovanissima, circondata dall’ambiente di una Portland alienante. La cinepresa segue il protagonista Alex avanti e indietro, sul suo skateboard lungo le curve sinuose del parco che dà il titolo al film, come nei corridoi del liceo e nelle vie deserte di una domenica mattina: ma, a differenza di quanto accadeva in Elephant, i lunghi carrelli accompagnati dalla colonna sonora non creano tanto un effetto di suspense, quanto di vera e propria “sospensione” dell’azione. Come se il film vagasse da qualche altra parte, per esempio fra le utopie infrante degli anni ‘60, distraendosi dal tempo e dal luogo che gli sono propri.
Van Sant si allontana sempre più da una logica narrativa classica e Paranoid Park, diventando un intreccio letterale e non metaforico, definisce il percorso di Alex come quello di un’intera cultura: così, le musiche di Nino Rota che accompagnano spesso il suo girovagare meditabondo, tratte da Giulietta degli spiriti (1965) e Amarcord (1973) di Federico Fellini, risultano vagamente inquietanti nell’accostamento, prelievi fantasmatici da un mondo e da un’epoca ormai quasi incomprensibili.
Indubbiamente più duro, ma non meno raffinato, anche il film di Cronenberg si presenta all’apparenza come un ipotetico sequel, proseguendo il discorso già intrapreso da A History of Violence (2005). Ma, in questo caso, la violenza rappresenta solo l’orpello della realtà, e non il suo senso ultimo. Semyon, il capo-famiglia russo affabile e crudele, e suo figlio Kirill, debole e ambiguo, vivono nel vuoto di un mondo animalesco e rigidamente regolato. La stessa Londra del film, oscura e respingente, non sembra più un habitat adatto a degli esseri umani, e al tempo stesso si presenta come una versione aggiornata e iper-moderna di quella ottocentesca, tra Dickens e Jack lo Squartatore.

Il solo Nikolai-Viggo Mortensen, autista e tuttofare dagli occhi di ghiaccio, compie un vero viaggio di formazione, trasformandosi agli occhi dello spettatore da robot minaccioso in uomo e infine in eroe. La sua storia e la sua identità, come quella di tutti gli appartenenti alla fratellanza criminale Vory V Zakone, sono scritti nei tatuaggi che coprono interamente il corpo. Eppure egli stesso, nel corso del giuramento da “capitano”, rinnega il padre e la madre e afferma di essere morto in realtà a quindici anni, mentre era in carcere, e di vivere da quel momento in una condizione di “distacco dalla realtà”: ancora una volta, come in Paranoid Park, una forma di sospensione e di estraneità rispetto al mondo circostante.
Tutti i personaggi, nei mondi paralleli di Paranoid Park e di Eastern Promises, sono alieni, stranieri a disagio nell’ambiente ostile in cui vivono (“In questa città non c’è mai il sole, però non fa mai abbastanza freddo“, afferma Semyon). E tutti riescono a fronteggiare le situazioni più estreme adottando una distanza di sicurezza, inserendo un filtro tra sé e la propria realtà: la lettera scritta per Alex, il cinismo freddo per Nikolai. Per entrambi, l’ostacolo più grande è rappresentato dall’indicibilità della propria condizione. Ed essa è anche il motivo della loro estrema solitudine.

I registi adottano dispositivi quasi opposti, ma ugualmente efficaci, per esprimerla: da una parte, per esempio, il sedicenne di Gus Van Sant, dopo il delitto, è tormentato da pensieri insopportabili che diventano interferenze acustiche per lo spettatore; dall’altra, non è un caso che Nikolai affronti completamente nudo e disarmato i due giganti ceceni nella sauna, in una scena che trasmette tutta la sua precarietà-vulnerabilità e che giustamente è già entrata nella storia del cinema.
Van Sant, in maniera più astratta, e Cronenberg, rientrando solo apparentemente nei confini del genere, dipingono dunque una condizione definitivamente post-umana, forse disumana. La violenza, l’orrore, l’evento traumatico rappresentano alla fine il contatto privilegiato dei loro protagonisti con la realtà e con gli altri individui. In un mondo che somiglia sempre di più a un romanzo di fantapolitica, il paesaggio spirituale disegnato dai due autori è insieme pauroso e affascinante: “valore sentimentale“, ripete Nikolai quando Anna gli spiega perché non vuole vendere la sua moto, “ne ho sentito parlare“. E il carattere disturbante di questo vuoto apparente fa il paio con l’aspetto definitivamente globalizzato di questa mafia, così lontana dai paradigmi romantici del Padrino di Coppola.

Per il resto, Alex e Nikolai sono due alieni, o meglio, i primi membri di una nuova razza. Che ricorda da vicino quella preconizzata da Richard Matheson in Io sono leggenda (1954), oggetto di una trasposizione cinematografica inevitabilmente consolatoria e deturpante: “Robert Neville posò lo sguardo sui nuovi abitanti della Terra. Sapeva di non essere uno di loro; sapeva di essere un anatema, un orrore nero da distruggere, come i vampiri. E quell’idea lo colpì come un fulmine, distogliendolo perfino dal dolore” [1].

christian caliandro

[1] R. Matheson, Io sono leggenda [1954], trad. it., Fanucci, Roma 2005, p. 194.


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 47. Te l’eri perso? Abbonati!

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