26 ottobre 2013

“Parigi, o cara….”. Noi non lasceremo

 
Le fiere, come le biennali, costituiscono oggi la nostra flànerie nell’arte. Occasioni di attraversamento di luoghi, sempre più lontani, e occasioni di incontro. Ma regolamentati da protocolli. Poco flànerie, quindi. Ma per fortuna l’ineludibile presenza dell’opera, e degli artisti, rimangono. Zoccolo duro, e tuttora festoso, di questo mondo in via di trasformazione (o già molto trasformato). Per esempio, in questi giorni di Fiac, al Centre Pompidou...

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Fiac 2013
“Parigi, o cara,  noi lasceremo, la vita unita passeremo…” così promette Alfredo a Violetta nella Traviata di Verdi. Un’aria nota in tutto il mondo e una metafora possibile per il mondo dell’arte che si è dato convegno alla Fiac. Una fiera di livello, con opere per  un pubblico di livello. 
Lasciata Parigi, dove passeremo la vita? Sempre alle fiere? Sempre in folgoranti lunghi weekend dove immagazzinare informazioni, ritrovare figure viste poco fa? È probabile.  
Di fronte a quest’idea provo un po’ di nostalgia per gli inviti liberi, gratuiti, senza accrediti, insieme agli artisti, ai collezionisti, ai curiosi, ad opere spesso mai viste, perchè presentate lì per la prima volta. Sono convinta che anche dentro il rapporto tra ricerca e mercato, tra passione e collezione si possa immaginare altro. 
Alfredo sperava di salvare Violetta con una promessa d’amore: non si tratta di salvare l’arte dallo stereotipo di un mercato “cattivo” o in scarsa sintonia con le invenzioni che l’arte stessa propone, ma di riannodare il filo della partecipazione diretta in galleria. È questo il luogo di mediazione necessario per avvicinare le opere: uno stand di una fiera, pur di qualità come l’attuale Fiac, non può avere quell’elemento di partecipazione che ci permette di concentrarci, di parlare con gli artisti lì, davanti alle loro opere. Mi si dirà che questo avviene normalmente nelle studio visit. È vero, ma è diverso. Per lasciarsi attraversare dalle figure esposte, far crescere spontaneamente l’attenzione e la critica, ci occorre tempo e in una galleria si può fare, si può tornare, si può andarsene senza sentirci pressati dall’accumulare notizie, prezzi, progetti. Vale per tutti gli osservatori, collezionisti oppure no.
Daniel Buren Progression électrique - Rouge 2012
Le fiere, le aste, non sono nemiche di questa esperienza, ma travolgono il senso comune dell’opera, e sotto sotto, ogni stand è visto come un micro museo, a volte più prezioso, a volte meno.
A me dell’arte piace il principio di indeterminazione che talvolta aleggia attorno alle opere esposte, vi leggo una specie di festa di presentazione di questi anomali soggetti, non biologici eppure nati da uomini o donne. Come se chi li ha messi al mondo volesse presentarceli con delicatezza, lasciandoci poi liberi di fare amicizia oppure no.
Tutto questo alle fiere non c’è: chi vuole fare degli acquisti e avere sotto gli occhi più possibilità trova una facilitazione, ma romanticamente penso sia più persuasivo l’ascolto del fascino inaspettato, o al contrario molto rincorso, che un’opera propone. A volte è amore a prima vista, a volte bisogna fare delle strategie per incontrarsi.
La Fiac dice questo e, fuori dalle sue stanze, Parigi  offre mostre, musei, gallerie e grandi attrazioni. Ma anche qui un segnale di ripensamento c’è.
Al Pompidou inaugura Modernités Plurielles de 1905 à 1970 (dal 23 Ottobre  2013 al 26 gennaio 2015). Una  rilettura della storia mondiale dell’arte, attraverso mille opere e 47 paesi, alcuni dei quali come Messico, Cina, Giappone, alcuni stati dell’America Latina, Africani, fino a qualche decennio fa, non erano alla ribalta dei grandi appuntamenti internazionali. Bisogna aspettare la fine del secolo scorso perchè diventino parte integrante della cittadella mondiale dell’arte contemporanea. Il primo che ha pubblicamente avvertito questa apertura è stato Harald Szeemann con le sue Biennale “Dappertutto” del 1999 e “La Platea dell’Umanità” del 2001.
Alfonso Angel Ossorio, Red Egg [Oeuf Rouge], 1942© Coll. Centre Pompidou

L’emozione nel rivedere i grandi geni del ‘900 è alta, perchè ci sono opere che fanno ormai parte della sensibilità profonda di tutti, ma anche perchè si percepisce una vicinanza, che non precludeva uno scambio globale, anche se non era ancora ipotizzabile lo stato attuale del sistema universale dell’arte.
C’è ad esempio una parete che riunisce l’idea e la memoria dell’atelier di Kandinsky, attraverso foto, sue, della moglie, tutti e due insieme, disegni, acquerelli, insomma tutta quella magmatica densità che ognuno immagina costituisca l’anello di pensieri e racconti della vita di un artista. Come non rimanere colpiti al cuore dagli stupendi pavimenti a mosaico del 1954 e 1955 di Sonja Delaunay
Ma la temperatura della storia appare anche attraverso le gouaches su carta di un anonimo, Le roi e la Reine , Le cheval de Troie ambedue datate (1930 – 45). E sempre nella direzione di quel misterioso incontro che l’arte propone c’è la teca che occupa tutta una parete, in cui è racchiusa la “vita quotidiana” di Henri Breton, dove tra cimeli e reliquie riconosciamo la sua struttura di lettura del presente e del passato che resiste nell’anima del mondo.
Tra una visione e l’altra ci sono differenze e distanze ravvicinate che ci collegano a Gyula Kosice e all’influenza che ha avuto l’esperienza latino americana degli anni 40 nell’Arte Concreta e in particolare di Buenos Aires. Kosice merita la bellissima stanza che gli è  dedicata. E l’incredibile quadro del brasiliano Tarsila, A Cuca, 1924, con un paesaggio popolato da coloratissimi animali fiabeschi che, pur evocando il Doganiere di Rousseau, ci fanno andare con uno strano salto a Murakami. E poi la stanza dedicata all’arte cinetica, dove gli effetti di luce e movimento vincono su tante esperienze di tecnologie visive al computer.
Tarsila do Amaral A Cuca 1924
Ed è bello che in questa nutriente immersione nella storia dell’arte del secolo scorso, emergano tante incursioni che divergono dall’influenza occidentale, o quanto meno ci facciano capire come emozione e creazione abbiano sempre propri sentieri indipendenti per stabilire direzioni e interruzioni. Bello che alla fine del percorso ci sia un grandissimo quadro Peinture, 1997 di Esther Mahlangu (1935, Sud Africa), che  ricorda la grande tradizione delle donne africane nel decorare le case.
Lasciando Parigi, capisco una volta di più che l’arte crea sempre una relazione ravvicinata dove vivere insieme. Le fiere accelerano i contatti, riducono il tempo,  mettono in primo piano il valore economico dell’arte. Ma i visitatori, gli appassionati, i curiosi di ogni tipo acquistano essenzialmente una modalità per elaborare le loro vite e le loro emozioni.
Le fiere continueranno, ma quello che ci lasciano è soprattutto la necessità di avere dei luoghi dove andare a confronto con questi anomali soggetti, che sono le opere, messi al mondo da uomini o donne, che a loro volta interagiscono con uomini e donne in carne ed ossa.
E allora, parafrasando Verdi, dico: Parigi, oh cara, noi lasceremo, ma non smetteremo di abitare nei luoghi dove l’arte ha origine. Prima, dopo, durante le fiere che ormai segnano quotidianamente il mondo. Almeno mi auguro.

2 Commenti

  1. Interessante per lo sgurado “romantico” sulle fiere e l’arte e, soprattutto, per suggerire un’arte che si è accorta che non è solo occcidentale. Inizio della fine del postcolonialismo?

  2. E’ bene ritrovare nell’arte odierna un po’ dell’atmosfera scapigliata e boehmienne della nostra Traviata. Una dialettica del romanticismo è necessaria nell’arte, è apertura all’uomo, alla città abitata dall’arte, più che al mercato. Grazie Francesca di questo sguardo (nuovo? forse).

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