PELLICOLA P38 |

di - 3 Luglio 2008
Il cinema italiano evidenzia una certa iniziale latitanza di “grandi firme” dietro ai film che, soprattutto nel decennio dei ’70, hanno tentato di affrontare la questione della violenza politica e del terrorismo, come se “una sorta di presbiopia [avesse impedito] di guardare il vicino, districarne le forze e capirne le dinamiche ideologiche” [1], forse anche a causa di un imbarazzo ideologico che ha accomunato molti registi, restii a misurarsi con un tema il cui retroterra culturale e politico è il medesimo nel quale essi si sono formati. Bisogna infatti attendere l’inizio degli anni ’80, il momento in cui, a sinistra come a destra, la lotta armata va a concludersi, per vedere apparire sulla scena cinematografica i primi film d’autore sul terrorismo.
Nel frattempo, a tentare una presa diretta sugli anni di piombo è stato un altro tipo di filmografia, meno autoriale e più popolare. Gli ultimi anni ’60 e i primi ‘70 costituiscono infatti il periodo storico in cui il cinema italiano, confidando ancora su un apparato industriale che si dissolverà di lì a poco a causa dell’avvento della TV commerciale, riesce ancora a fare affidamento sui generi per dare vita a un consumo “di denuncia” che si configura come l’altra faccia del cinema civile dei Rosi e dei Petri. Sono soprattutto la commedia satirica e il poliziesco all’italiana a raccogliere da subito la sfida di fotografare le tensioni e i drammi che sconvolgono il Paese sotto forma di violenza politica tra “opposti estremismi”, di vero e proprio terrorismo, ma anche di stragismo e di piani eversivi originati da sezioni deviate dello Stato.

All’origine della sintetica ricognizione qui proposta sul cinema di genere italiano che si è occupato di terrorismo (nelle sue varie manifestazioni) si vuole porre il caso di Colpo di Stato, film girato in pieno ’68 da Luciano Salce; esempio piuttosto raro di cinema-verità mascherato da satira fantapolitica in cui si ipotizzano le conseguenze di una vittoria elettorale dei comunisti alle elezioni del 1972. Poco dopo l’uscita del film, del resto, ha luogo in Italia il tentato putsch della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 guidato da Junio Valerio Borghese che sembra il sequel reale della fiction di Salce, motivo per cui, ancora una volta, il cinema, senza inventare nulla, mette la sua cornice intorno alla Storia tratteggiando lo scenario grottesco di Vogliamo i colonnelli (Mario Monicelli, 1973), sorta di instant-comedy sui fatti del ’70 e, al tempo stesso, viaggio burla nel contesto dell’ondata di destra che caratterizzò l’inizio del decennio.
È così che le trame eversive, i servizi segreti deviati, il terrorismo, cominciano a nutrire i nuclei drammaturgici di pellicole che, pur sfruttando tali elementi ai fini di uno spettacolo di “consumo”, a distanza di tempo si fanno rivalutare quali rappresentativi, a volte persino “coraggiosi”, sguardi su quegli anni, come nel caso paradigmatico di La polizia ringrazia (Stefano Vanzina, 1972), considerato il capostipite dell’intero genere “poliziottesco”, di La polizia sta a guardare (Roberto Infascelli, 1973), film in cui si fa esplicito riferimento alle bombe che “fanno deragliare i treni”, ma soprattutto di La polizia accusa: il servizio segreto uccide (Sergio Martino, 1975), nel cui titolo, per la prima volta, si fa riferimento diretto agli apparati di intelligence deviati e alla loro azione di morte.

Alla violenza organizzata del terrorismo si accompagna nel frattempo quella diffusa di movimenti e organizzazioni “rosse” e “nere” votate alla reciproca eliminazione. Troppi sono in quegli anni i “delitti inutili” di cui si rendono responsabili ragazzi in tutto simili a quelli descritti da Carlo Lizzani nel suo San Babila ore 20: un delitto inutile (1976), film ricalcato su un fatto vero in cui si mette in scena la fisionomia di un universo giovanile in stile Arancia meccanica nel quale al drugo kubrickiano si sostituisce il camerata che, con la connivenza della polizia, spadroneggia nella sua zona marciando al passo dell’oca.
Per le strade e le piazze italiane la tensione cresce anche all’interno delle forze dell’ordine, i cui uomini cominciano a morire nei servizi di scorta. Proprio a uno dei tanti “servitori dello Stato” coinvolti in una simile guerra si ispira il brigadiere di polizia impersonato da Gian Maria Volonté in Io ho paura (Damiano Damiani, 1977), “forse il documento più raggelante sugli anni di piombo” [2], il cui impianto fa hitchcockianamente leva sulla classica figura dell’“innocente” capitato, suo malgrado, dentro un gioco (fatto di stragi di innocenti e di alleanze tra terrorismo e sezioni deviate dello Stato) che immancabilmente finisce per stritolarlo.
A metà strada fra l’attaccamento alla realtà di Damiani e l’approccio metafisico di Petri e del Rosi di Cadaveri eccellenti si pone infine quel piccolo caso cinematografico costituito da Italia: ultimo atto? (Massimo Pirri, 1977), il primo film poliziesco a occuparsi direttamente di terrorismo rosso [3] e, più in generale, una delle prime opere che abbia guardato frontalmente a un argomento considerato tabù per gran parte degli autori dell’epoca. Un anno prima che le BR arrivino a colpire il “cuore dello Stato”, Italia: ultimo atto? racconta la vicenda di tre estremisti di sinistra che preparano e realizzano il piano di uccidere il Ministro degli Interni, innescando una reazione a catena che ha come conseguenze l’esplosione di una vera e propria guerra civile; apocalittico scenario in tutto simile a quello messo in scena da Nanni Moretti, trent’anni dopo, nel finale del suo Caimano, anch’esso in fondo, per il pessimismo e il senso di impotenza di cui è pervaso, sorta di ultimo atto di un’Italia di inizio Millennio.

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christian uva

[1] G.P. Brunetta, Guida alla storia del cinema italiano 1905-2003, Einaudi, Torino 2003, p. 220.
[2] R. Curti, Italia odia. Il cinema poliziesco italiano, Lindau, Torino 2006, p. 165.
[3] I terroristi rossi vengono messi in scena anche da Dino Risi in Mordi e fuggi (1973), “commedia psichiatrica” che, prendendo spunto dai primi sequestri compiuti all’epoca dalle BR, mette a confronto, “il coniglio borghese e il leone extraparlamentare”, ossia l’industriale vigliacchetto (Marcello Mastroianni) preso in ostaggio con la sua amante durante una rapina compiuta da un organizzazione di estrema sinistra, e il professore di sociologia (Oliver Reed) a capo del gruppo, un militante filo-operaista la cui figura rimanda, da un lato, all’ideologo Renato Curcio (leader storico delle BR) e, dall’altro, per la sua fisicità, alla stazza del “contadino” Prospero Gallinari (anch’egli tra gli appartenenti al nucleo storico del partito armato).


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 50. Te l’eri perso? Abbonati!

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