Pittura lingua viva

di - 22 Aprile 2015
Negli ultimi anni hanno ospitato installazioni, performance, video e fotografia. E oggi cosa propongono ? Pittura. Una tecnica millenaria che ha imparato a riflettere su se stessa, sui propri codici evolutivi, sulla natura delle immagini e sulla loro identità ma anche, se non soprattutto, sull’essenza fisica e materica del linguaggio specifico. I risultati? Assai promettenti, almeno per quanto riguarda tre interessanti personali aperte in questo mese in due gallerie della capitale, Federica Schiavo e Monitor, e all’American Academy. Un itinerario che costituisce un’ottima occasione per riflettere sulla consapevolezza di chi ha scelto di fare pittura, come l’artista viennese Svenja Deininger, nata nel 1974, protagonista della mostra “Every Something Is An Echo of  Nothing” da Federica Schiavo: una rarefatta e accurata esplorazione nella natura stessa della pittura astratta, dove ogni singola pennellata rivela una conoscenza profonda di maestri come Ellsworth Kelly o Frank Stella, con un occhio a Tomma Abst o Mark Grotjahn. Tele di dimensioni diverse che vivono di accumulazioni e velature fino ad ottenere un perfetto equilibrio tra forma e campitura, con interessanti oscillazioni tra la tradizione americana del colour field, quella britannica del process painting e una classicità tutta europea che muove da Kandinskj e Schwitters, senza dimenticare i cellotex del nostro Burri. Ogni dipinto è un mondo dove la tecnica si sposa con una sensibilità per il colore senza però dimenticare l’elemento casuale-ricordato anche dal titolo, una citazione da John Cage – quella piccola imperfezione che rende accettabile e scalda una perfezione eccessiva. Una pittura che scava nelle sue radici, mettendo in atto processi formali maniacali ed ossessivi, per costruire una delle mostre più stimolanti del momento nella Capitale.

Ancora pittura, ma di grado diverso: Monitor presenta un gruppo di tele dell’americano Duane Zaloudek (1931) storico assistente di Walter De Maria, realizzate tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Grandi tele astratte dai colori vivaci, dipinte con pennellate veloci ma precise, che ricordano vagamente situazioni erotiche, colte però con un american glance: campiture geometriche che ricordano Philip Guston , William Bazoties e Robert Motherwell, con una freschezza tutta contemporanea e intrisa di una sottile, gioiosa ironia, colta da Douglas Hall Kent, già a partire dal 1966, che su Art Forum segnala la precisione di Zaloudek «nel controllare la tecnica attraverso uno scrupolosamente limitato vocabolario di forme , spazi e colori, posti in equilibrio da una stretta sintassi».
A differenza delle opere di Deininger, qui l’astrattismo americano dispiega la sua potenza visiva ed espressiva, nella costante ricerca di una relazione attiva con lo spettatore. Una relazione viva e presente, anche se sviluppata con modalità differenti, nella personale di Charles Mayton “Tableau Table Tavolo”, curata da Peter Benson Miller nella galleria dell’American Academy  di Roma che ha concepito l’allestimento come un fregio architettonico classico, composto da una serie di tele disposte lungo due pareti dello spazio in una posizione alta, che suggerisce l’idea di un tempio. Un ironico e ben giocato contrasto con il tema della mostra, che insiste sul rapporto tra pittura e cibo, attraverso una commistione tra tele, dipinte in maniera stratificata e densa di riferimenti ad un immaginario composto da riferimenti alla classicità colti però da uno sguardo americano.

Un dialogo incessante tra high and low che prosegue con le opere, meno interessanti ma comunque efficaci, realizzate con cassette di frutta e pale da forno raccolte dall’artista durante il suo soggiorno nella Città Eterna, che testimoniano la capacità di Mayton di proporre un immaginario apparentemente superficiale ma in realtà sottile e profondo, giocato sulla capacità seduttiva di una pittura che si fa linguaggio per dare vita ad un’iconografia penetrante e perversamente ambigua. Una pittura che non si vergogna della propria atemporalità, ma la elegge a simbolo di un linguaggio contemporaneo contraddittorio e spiazzante, in grado di rileggere la forza della classicità senza timore di ribaltarne l’essenza.
Ludovico Pratesi

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