Beati loro! Se ne stanno sdraiati sugli asciugamani, chi sonnecchia, chi ascolta musica, chi legge un libro, chi spippola sul telefono o sull’Ipad. Anche i due ragazzini presenti se ne stanno buoni buoni, un po’ giocano con la sabbia, un po’ tormentano, ma con grazia, la nonna e lo smartphone. Poi c’è anche una coppia ben agé, due panzoni niente male, anche loro bradipizzati sull’asciugamano. Lei gli toglie un po’ di sabbia dalla schiena, lui le spalma mollemente la crema sulle spalle, noncuranti delle panze e di chi li sta scrutando. E tutti, grassi o magri che siano, single o in coppia, tatuati o immacolati a un certo punto intonano delle canzoni, quasi nenie che aumentano l’effetto culla, il dondolio in cui tutti ci vorremmo trastullare.
Sì, beati loro. Finalmente in santa pace, mentre noi stiamo quassù, accalcati in una specie di ballatoio, a scrutarli dopo ore di fila, un viaggio in vaporetto fuori mano, intirizziti dalla pioggia mentre loro si godono il tepore del sole inizio stagione. E soprattutto galleggiano in una bolla, fuori dal rumore e dall’ansia di prestazione da Biennale, fuori dal casino. In un mondo a parte, e dolce.
Penso che la Lituania, Paese da tenere d’occhio quanto a qualità e vivacità artistica, abbia vinto il Leone d’Oro perché ha messo in piedi, con (apparente) semplicità, pochi mezzi, molta fantasia e un bel pensiero, un Padiglione che incarna il desiderio. Quello che prima o poi punge qualsiasi addicted di Biennale e di arte contemporanea: avere un po’ di pace, fare altro, non essere risucchiato dalla centrifuga veneziana, e non solo. Sì, penso che il Padiglione lituano esprima un profondo carattere liberatorio e desiderante che va oltre la Biennale, anche se qui trova terreno molto fertile, e si insinua nei nostri giorni affannati, vampirizzati dalla mancanza di tempo, smemorati e spesso anaffettivi. Lì, invece, l’affetto si percepisce, il tempo si respira, così come la possibilità di incontrare e fare qualcosa di diverso dal previsto, come non a caso raccontano anche le nenie intonate dai performer. C’è quella vita, insomma, che ci manca.
Pavilion of GHANA Ghana Freedom 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, MayYou Live In Interesting Times Photo by: Italo Rondinella Courtesy: La Biennale di Venezia
È un Padiglione che anni fa avrebbe potuto fare Olafur Eliasson, quando realizzava installazioni che raccontavano i nostri desideri, cui lui dava vita con quella semplicità progettuale che fa la differenza rispetto a progetti gridati, inutilmente dispendiosi e spettacolari. Ricordate The weather project (noto anche come Your sun) alla Tate Modern di Londra: “Il sole è la grande ossessione degli inglesi e io gliel’ho realizzato nel museo, assemblando migliaia di lampadine led”, mi spiegò Eliasson. Memorabili le immagini della gente che andava alla Tate con gli asciugamani e gli occhiali da sole e si stendeva sotto i raggi a led.
Con ancora molti meno mezzi, e facendo oggi Eliasson altro, la Lituania ha realizzato qualcosa del genere. Non è strano, quindi, che abbia vinto questo Padiglione piuttosto che quello molto più strutturato e potente del Ghana, che a me, peraltro, è piaciuto moltissimo e che, tra gli altri, ci ha fatto ritrovare due grandi artiste, una pittrice, Lynette Yladom-Boakye, e una fotografa, Felicia Abban, che sembra quasi la Cindy Sherman del Ghana (ma una cosa è essere Cindy Sherman negli States e altra cosa è provare a fare qualcosa di simile in Ghana), e ci ha regalato immagini molto catturanti dell’Africa tutta, dove il rischio National Geopraphic è bypassato dal mischiare immagini che rimandano all’emigrazione, le comunità perse o che si ritrovano nella ricostruzione di quei capolavori d’architettura di fango come è ad esempio la moschea di Djenné in Mali, l’ottusa violenza dei bianchi e la desolazione del presente. Perché quel video non tratta solo del Ghana, ma di tutta l’Africa, ricordandoci – messaggio che è abbondantemente risuonato in tutta questa 58esima edizione della Biennale – che l’Africa, non solo “ci guarda”, ma è il Continente del futuro, quello che forse un giorno avrà la meglio, forse anche sui ricchi (attuali) dominatori cinesi.
Ma forse il Ghana non ha vinto proprio perché troppo perfetto, avendo giocato anche la carta di un’architettura firmata, con un impeccabile Padiglione di fango disegnato da Sir David Adjaye. Troppo muscolare, troppo “born to win”, insomma. Che ha investito troppo per vincere, rientrando quindi, anche suo malgrado, nel grande circo Barnum della Biennale.
Ryoji Ikeda spectra III, 2008 LED lighting tubes, laminated white wooden panels 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Foto: Francesco Galli
La Lituania, invece, ha giocato un basso profilo, come è nello stile di questo Paese giovane, che però ha capito, molto meglio di un Paese vecchio come il nostro, che investire nella cultura dà ottime opportunità per farsi conoscere e che competere su questo piano non è inferiore a una competizione industriale o di altro genere. E poi, come in tutti i Paesi giovani che escono da anni di occupazione e sopraffazione – in Lituania è ancora fortissima la memoria della russizzazione forzata cui sono stati sottoposti – gli artisti hanno voglia e qualcosa da dire, credono fortemente in quello che fanno con un entusiasmo e una vitalità a noi sconosciuta, lo dico per esperienza diretta, avendo fatto un anno fa un “Focus on Lituania” ad ArtVerona. Lina Lapelytė, la giovane performer che insieme a Rugilė Barzdžiukaitė (filmmaker) e a Vaiva Grainytė (scrittrice), si è aggiudicata il Leone d’Oro, presentata per la prima volta in Italia in uno spazio no profit, AlbumArte nel 2017, dopo la partecipazione, sempre nel Padiglione lituano alla Biennale di architettura del 2016, appartiene a questa generazione di artisti.
Penso che il Leone d’Oro a questo Padiglione dia una lettura sghemba dei tempi interessanti che questa Biennale appena inaugurata ci augura di vivere (may …), la quale, ancora a caldo, mi fa pensare a un paio di cose. Vado per punti e piuttosto di fretta, anche per non rubare spazio ad altri interventi.
Hito Steyerl This is the Future, 2019 Mixed media 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Photo by: Andrea Avezzù Courtesy: La Biennale di Venezia
È stata una Biennale dove il mondo digitale ha avuto un grande peso (tra gli altri: Jon Rafman, Hito Steyerl, sebbene con impostazione fortemente critica, Ikeda Ryoji, Ed Atkins) ma è la seconda volta che vince una performance, il che dovrebbe far riflettere sul bisogno di prossimità (anche disturbante, come era quella due anni fa di Anne Imhof), e in qualche modo di materia, che tocca anche il mondo dell’arte.
Il messaggio forte che arriva dall’Africa, come già detto, rivolto anche ai collezionisti, al mercato insomma, quello che può muovere le cose, ma di cui, a parte eventuali smottamenti di ordine commerciale, si nota un cambio di passo: l’asciugarsi della componente più “etnica”, più folkloristica in un certo senso, a favore di un affinamento formale (parole molto pericolose!) che però non significa perdita di identità o compiacimento del gusto occidentale (per vendere di più come fecero a loro tempo gli artisti cinesi). La presenza africana in questa Biennale induce rispetto – impossibile sfuggire allo sguardo indagatore di Zanele Muholi – e dà l’idea dell’apertura di un nuovo capitolo, che sarà probabilmente accidentato e non esente da ambiguità, ma che c’è.
La presenza dell’arte a firma femminile, che non necessariamente significa femminista, e che raggiunge risultati significativi quando si confronta con linguaggi non di genere, lo fa anche Teresa Margolles, che pure tratta realtà drammatiche dell’altra metà del cielo ma senza spogliarsi né spogliare le sue donne (argomento su cui vorrei tornare presto), che non a caso si è aggiudicata una menzione speciale, pur scontando una pessima posizione sia ai Giardini che all’Arsenale.
Jon Rafman Disasters Under The Sun, 2019 Single channel HD video, colour, sound 58. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, May You Live In Interesting Times Foto di Francesco Galli Courtesy: La Biennale di Venezia
La Biennale di Ralph Rugoff ci ha poi definitivamente dimostrato la centralità del suono nella ricerca contemporanea, che è musica e rumore. E che investe un senso tradizionalmente non deputato alle arti visive, ampliando notevolmente il territorio di queste. Lo sapevamo, ma ora ci è ancora più chiaro, e anche più attraente.
Ne esce fuori un’interessante lezione sullo stato dell’immagine in movimento, che non segue quasi più moduli tradizionali – come sempre geniale Laure Prouvost – ma si destruttura e si ristruttura davanti ai nostri occhi dando luogo a soluzioni inedite su cui ci sarebbe molto da riflettere. Penso che The Clock di Chris Marclay, con la sua ricomposizione in tempo reale del tempo reale e di finzione, sia assolutamente speculare e connessa al disfacimento dell’immagine che ci ha presentato quest’anno con 48 war movies.
Infine, le code. Possibile che la Biennale Arti Visive interessi così tanta gente disposta a immolare la propria schiena e i propri piedi per un video o una performance? E le cene, e dove sei stato, e chi c’era? Mah, non sempre i tempi in qualche modo legati all’arte sono così interessanti.
Adriana Polveroni