23 ottobre 2006

QUATTRO PICCOLI INDIANI

 
Si chiamano Jitish Kallat, Rina Banerjee, Justin Ponmany e Mithu Sen. Sono le promesse dell’arte indiana nate dopo il 1970. Che lavorano in quel laboratorio del nostro futuro che è il Subcontinente. Quattro nomi da appuntarsi direttamente dalla più grande democrazia del mondo…

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“L’india può volare?” si domandava qualche mese fa l’Economist in una delle sue copertine… Qualunque sia la risposta, è certo che sono decollati i prezzi di molti dei suoi artisti, che hanno raggiunto nelle case d’aste record inattesi. Al di là del fenomeno speculativo, delle mode del momento e della “campagna pubblicitaria” orchestrata dal governo indiano (è sempre The Economist a dirlo), evidenzieremo alcuni elementi fondamentali della produzione artistica contemporanea indiana, attraverso lavoro di quattro artisti.
Tra i pittori, Jitish Kallat –rappresentato dalla Sakshi gallery di Mumbay- è probabilmente il più quotato sul mercato internazionale. I suoi lavori sono stati presentati non solo a Mumbay e Nuova Delhi, ma anche in Europa, Nord America, Asia e Australia. La sua è una pittura in cui convivono elementi autobiografici, frasi estrapolate dal linguaggio quotidiano e simboli tradizionali, proprio come sui muri delle grandi metropoli indiane. L’opera di Kallat è esemplare perché mostra di aver saputo assimilare e reinterpretare in chiave indiana e alla luce della realtà socioeconomica contemporanea, la lezione della pop art “storica” (che a sua volta, per la verità, ha spesso attinto all’immaginario dell’Estremo Oriente). Forse anche in questo risiede un suo limite, nel fatto che i temi e i soggetti affrontati non sempre danno vita, tra le mani dell’artista, a un linguaggio formale davvero inedito. Ma è questa una caratteristica comune a molta arte contemporanea indiana: si percepisce insomma, al di là della volontà assimilatrice, il desiderio degli artisti di comunicare attraverso idiomi che possano essere facilmente decodificati dal sistema dell’arte contemporanea globale. Lo spettatore si trova quindi facilitato nella comprensione di una realtà distante ed estremamente complessa; d’altra parte non viene sempre appagata la sua voglia di “esotismo”.
Jitish Kallat: "Artist Making Local Call" 2005; digital photographic print on vinyl mesh; edition of 3; 241 cm x 1044 cm
Il carattere ambiguo dell’”esotico” è uno dei temi fondamentali del lavoro di Rina Banerjee, artista di origini indiane – è nata a Calcutta- cresciuta negli Stati Uniti, dove vive e lavora. La Baneerjee -che era presente all’ultima edizione di Greater New York (una delle mostre pi PS1), e alla quale è stata dedicata recentemente una personale dalla galleria AMT di Como- realizza stravaganti installazioni utilizzando i materiali di recupero più disparati (tubi di gomma, ramoscelli, cellophane, abiti tradizionali indiani, lampadine). Sono lavori le cui istanze politiche vengono veicolate da una poetica ironica e sagace che richiama le tendenze Dada. Al di là del programma avanguardistico di sconfiggere ogni concezione elitaria dell’arte, di spogliare l’arte da ogni residuo di aura mistica, vi è forse una volontà tipicamente indiana di riconoscere una pari dignità e sacralità agli aspetti più prosaici della vita quotidiana. I suoi disegni, sensuali e ironici al tempo stesso, sembrano la metafora di una vita che brucia con effetti pirotecnici. Attraverso brillanti cromatismi e ricorrendo anche all’utilizzo delle bruciature l’artista dà vita a una bizzarra cosmogonia, offrendo una rappresentazione simbolica del reale, evocando l’esotismo attraverso la rappresentazione della femminilità, nel suoi carattere seducente e spaventoso al tempo stesso.
La mancanza di una narratività lineare, lo sviluppo del lavoro attraverso il gioco delle libere associazioni e l’attenzione per l’universo femminile caratterizzano anche i lavori di Mithu Sen (Burdwan, 1971). Ispirandosi all’ambiente delle “withdrawing room”, dove le donne discutevano i loro affari privati, Sen restituisce questo spazio alle legittime proprietarie, le donne, ritraendone la solitudine e la marginalizzazione. I suoi disegni traducono in immagini fantasiose pulsioni e desideri che animano l’immaginario erotico femminile, costretto a rispettare l’etichetta sociale del silenzio. Fiori, frutti, animali e singole parti del corpo umano vengono rappresentati in modo isolato o combinati tra loro, all’interno di una struttura compositiva che ricorda l’andamento di una conversazione, vivace ma sempre educata, capace di alludere più o meno esplicitamente a una concezione della sessualità posta al di fuori di ogni rigida volontà classificatoria.
Incentrata sul concetto di “memoria plastica” è la poetica di Justin Ponmany. Nato nel Kerala nel ‘74, l’artista vive e lavora da diversi anni a Mumbay ma è stato chiamato a esporre i suoi lavori in numerose mostre personali e collettive a Nuova Delhi, Los Angeles, New York, Londra e, recentemente a Milano (Spaziosempione). Ponmany lavora sul concetto di “memoria plastica” rappresentando attraverso opere quasi scenografiche città in continua costruzione che esprimono amore, desiderio e perdita, negando la reale esistenza di qualsivoglia “patrimonio culturale”. La sua intenzione è quella di continuare la grande tradizione della pittura, senza limitarsi a questo mezzo espressivo, ma sperimentando anche le nuove tecnologie e materiali non convenzionali. I suoi lavori appaiono infatti come ologrammi capaci di fondere elementi figurativi e scenari architettonici.
Le opere di Ponmany -in cui convivono tendenze pop, minimaliste e concettuali- come i dipinti di Jitish Kallat, testimoniano la rapida trasformazione della città di Mumbay, i cui spazi fangosi sono stati sostituiti negli ultimi anni da lussuose aree commerciali. Quando si riferisce al concetto di “plasticità” l’artista allude tanto alla “non biodegradabilità” della memoria (dal titolo dei una sua recente mostra alla Sakshi Gallery di Mumbay) quanto alla flessibilità di pensiero in opposizione alla ristrettezza di vedute che secondo Ponmany è responsabile di un impantanamento nello sviluppo della classe media indiana. La freddezza della fotografia digitale, utilizzata come strumento di partenza dei lavori installativi- si sposa con una attitudine contemplativa, capace di meditare sul tempo, lo spazio, il decadimento e la resistenza delle identità locali nei confronti del processo di globalizzazione.
Alla luce di quanto detto sopra e delle intenzioni espresse all’inizio di questo articolo, è quindi possibile identificare alcuni tratti comuni nella produzione artistica dell’India contemporanea? Certamente no, se si andasse alla ricerca di un carattere identitario fortemente marcato, di quell’iconografia richiamata tradizionalmente dal senso comune dell’uomo occidentale: tigri, leoni, strane divinità, enfatizzazione dell’ornamento. La stessa cultura indiana, i mille riti e dèi delle sue tradizioni religiose, le centinaia di dialetti parlati dalle sue genti, la sua concezione dell’uomo e della verità, sembrano rigettare il concetto stesso di “identità”. Eppure esistono dei tratti peculiari, che fanno dell’India contemporanea uno dei paesi di maggiore interesse da più punti di vista. Innanzitutto la sua solida tradizione democratica, capace di dare ugualmente voce a fedi, classi e caste spesso separate da un forte divario economico e culturale. E poi l’ampia diffusione della lingua inglese, retaggio del colonialismo britannico, ma ancora oggi lingua ufficiale nelle università e importante strumento per ovviare ai locali.
Justin Ponmany: "Plastic Sobriety" 2005; holographic pigment and acrylic on canvas; 190 cm x 264 cm (diptych); Collection Pierre Huber, Geneva
Forse proprio questi due elementi costituiscono il vantaggio competitivo dell’India e dei suoi artisti nei confronti della realtà cinese. Una maggiore tutela della libertà di espressione e la maggiore permeabilità con la cultura Occidentale, garantita proprio dall’ampia diffusione della lingua inglese, rendono la sua arte contemporanea meno “altra”, forse meno “esotica” ma certamente più comprensibile e più affine alla nostra sensibilità. Il collezionista attento poi, non mancherà di ricercare in essa gli elementi di quel processo di trasformazione in corso che fa di questo paese –come afferma Federico Rampini- “il laboratorio del nostro futuro”, un’impegnativa sperimentazione di democrazia, di integrazione delle diversità, di equilibrio tra assimilazione ed “export” culturale. Se l’India vincerà la sfida, anche il resto del mondo probabilmente potrà farcela. E forse qualche pronostico possono offrircelo anche i lavori dei suoi artisti…

luca vona

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 33. Te l’eri perso? Abbonati!

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