Già vi si richiamava esplicitamente il titolo dell’ultima Biennale veneziana alla questione della luce, riprendendo una tematica profonda dell’esperienza e della pratica artistiche non solo contemporanee. E fra lo stuolo di Biennali che vi sono in giro per il mondo ve ne è una nuova, dedicata esclusivamente all’arte della luce (Biennale für internationale Lichtkunst), la cui seconda edizione si terrà negli ultimi mesi del 2012, nella regione della Ruhr. Un’estate di un paio di anni fa, due importanti istituzioni europee ospitavano ampie esposizioni personali di artisti la cui ricerca è concentrata sulla luce: Innen Stadt Aussen di Olafur Eliasson al Martin Gropius Bau di Berlino; Now I see di Brigitte Kowanz al Mumok di Vienna. Medesima artista, ancora relativamente poco nota in Italia, ha chiuso alla fine di febbraio 2012 la personale in un altro spazio di qualità dell’Austria, la Galerie im Taxispalais di Innsbruck. Intorno alla questione della luce sembrano ruotare alcuni degli aspetti più complessi dell’arte odierna, cioè le sue modalità di relazione con l’osservatore, con la tecnologia, con lo spazio architettonico e l’ambiente. Non si tratta di questioni inerenti la sola attualità della ricerca artistica; nel rapporto fra arte e luce entrano in gioco visioni di fondo che riguardano l’intero orizzonte della modernità. Lo si avverte bene rileggendo le pagine di un breve saggio scritto da Hans Sedlmayr (1896-1984, allievo di Max Dvorak e Julius von Schlosser) uno degli storici dell’arte di fama della scuola di Vienna. Sedlmayr è stato non solo uno specialista dell’architettura barocca (con studi su Fischer von Erlach e Borromini), ma anche uno dei più critici osservatori della modernità nelle arti, a cui ha dedicato i suoi libri di maggiore notorietà (Perdita del centro, 1948; La rivoluzione nell’arte moderna, 1955). Il breve saggio a cui ci si sta qui riferendo ha un titolo assai emblematico, La luce nelle sue manifestazioni artistiche, e si propone come prima traccia di un più ampio lavoro: scrivere una storia delle arti visive sotto la categoria della luce. In italiano il saggio di Sedlmayr ha avuto un paio di edizioni, entrambe per la Collana del Centro Internazionale Studi di Estetica; la più recente curata da Andrea Pinotti (Aesthetica, 2009).
Non è questo lo spazio per approfondire ulteriormente gli intenti dell’autore, al cui saggio si rimanda. Però merita richiamare le conclusioni del testo, conclusioni nelle quali si afferma che “la sete di luce” che si impadronisce dell’uomo nella modernità, è il sintomo di una sostanziale eclissi della luce (sia quella interiore che quella suprema), di cui è un esempio evidente quel che è accaduto in pittura dall’Impressionismo in poi. Cioè l’avvento di un primato del colore che assorbe e ingoia “tutta la forza e il potere della luce”, diventandone un mondano “surrogato”. Analogamente il culto della luce nei moderni “palazzi di cristallo” è il risultato di un materialismo dominato dalla tecnica che segnala come qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto rispetto alla interazione fra luce e spazio che si apriva in una cattedrale gotica. Insomma lo storico dell’arte non può che registrare l’ormai avvenuta caduta da una condizione metafisica e mistica della luce ad una tutta mondana, caduta che si traduce in una “perdita della trasparenza”, tema a cui è dedicato l’ultimo, intenso paragrafo del breve saggio. È il punto forse più significativo della critica dello studioso austriaco: il trionfo moderno della luminosità corrisponde al venir meno degli aspetti più sottili della luce.
Ha ragione Andrea Pinotti ad osservare, nella sua introduzione, che Hans Sedlmayr, rispetto alla ricerca artistica contemporanea alla stesura di Das Licht in seinen künstlerischen Manifestationen (1960, poi ripubblicato in una raccolta nel 1979), avrebbe parlato di anti-arte, o di para-arte; includendo tali manifestazioni in un processo generale di asservimento “all’idolo della tecnica” e alla sua demiurgia. Ma il concetto di trasparenza – al di là della sua paventata perdita– sembra in realtà aver effettivamente molto a che fare con una “nuova visione” (Moholy-Nagy), non solo dei rapporti fra arte e tecnica, ma anche fra arte e società. Ed è merito che va comunque riconosciuto allo studioso austriaco avervi richiamato la nostra attenzione. Pensando alla trasparenza è difficile non vengano in mente opere come il Licht-Raum Modulator del già nominato Laszlo Moholy-Nagy, (una nuova edizione del suo Pittura Fotografia Film, è uscita per Einaudi a cura di Antonio Somaini nel 2010). Nelle sequenze del film Ein Lichtspiel: schwarz-weiss-grau, che riprende l’animazione luminosa generata dal Modulator, il linguaggio compositivo così apparentemente astratto e sospeso, lascia intravedere non solo una originale relazione fra arte, tecnologia e luce, ma sembra assumere valore metaforico per la rappresentazione delle relazioni che si generano all’interno di una società pensata come un cangiante caleidoscopio in costante movimento. Il concetto di trasparenza, nelle sue declinazioni moderne, o meglio, proprio grazie a queste ultime, potrebbe così venir assumendo un ben più ampio spettro di significati.
di riccardo caldura
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 78. Te l’eri perso? Abbonati!