Del riposizionamento della
città nella geografia dei centri di produzione culturale nel Regno Unito
non è responsabile solo la riqualificazione urbana,
quanto una vivace scena artistica che si compone di diverse istituzioni. La più
nota? Senz’altro la Tate Liverpool, accompagnata da centri espositivi come the
Bluecoat, FACT – Foundation for Art and Creative Technology, Contemporary Urban
Center e Open Eye Gallery, per citarne solo alcuni. Determinante è stata poi
anche la presenza di think tank come Laurie Peake, proveniente da Alsop Architects (dove ha seguito
diversi progetti di rigenerazione urbana nel nord dell’Inghilterra) e direttore
della sezione Public Art della Biennale d’arte
di Liverpool. Memorabili le installazioni
da lei curate di Jaume Plensa, Richard Wilson e Antony
Gormley in occasione delle precedenti edizioni della Biennale, opere
divenute permanenti visto il successo di critica e pubblico ottenuto.
“Abbiamo
sempre coinvolto la popolazione locale nella realizzazione di nuovi progetti”,
afferma Peake, “in modo che non si
sentissero espropriati del proprio territorio. L’obiettivo è quello di dare una
diversa identità sia a luoghi poco frequentati sia a quelli conosciuti, com’è accaduto con le 100
sculture in ferro di Gormley, disseminate lungo tre chilometri nel mare e nella
spiaggia di Crosby. L’opera è diventata un’icona cittadina,
non solo per gli amanti dell’arte ma anche per i giovani che decidono di
incontrarsi lì il sabato sera”.
“Prova a chiedere
informazioni a un taxista su un’opera presente in città e avrai subito un’idea
di come quest’arte stravagante abbia ridefinito il clima cittadino. Oppure da’ un’occhiata su YouTube per vedere come gli
abitanti hanno accolto l’installazione di Richard Wilson”, aggiunge Mark Waugh, direttore di A Foundation Liverpool, oltre
5mila mq di spazio non profit ricavati da una vecchia fornace. Li incontriamo
in occasione di Touched, la sesta
edizione della Biennale (in corso fino al 28 novembre), disseminata in una rete
di spazi espositivi pubblici e privati, gallerie (quelle succitate), musei (la
Tate Liverpool), l’oratorio della cattedrale anglicana, l’abside della
sconsacrata Great George Street Congregational Chapel e un grande emporio
abbandonato. Quest’ultimo ospita la sezione Re-Thinking
Trade, dove si concentra il
maggior numero di artisti e interventi.
Una scelta curatoriale motivata da
riflessioni di carattere politico ed economico, come racconta Lorenzo Fusi,
curatore della Biennale: “Sono arrivato a
Liverpool sull’onda del credit crunch che ha coinvolto tutti i mercati
finanziari occidentali. La città, il cui volto è cambiato in seguito alla sua
elezione a Capitale europea della cultura nel 2008, vive ora un momento di
incertezza. La maggior parte delle attività commerciali si sono spostate verso
il nuovo shopping mall, mettendo in pericolo la sussistenza di iniziative indipendenti,
presenti nel centro cittadino fino a poco tempo fa. Catene e negozi in
franchising stanno omologando l’offerta commerciale, polverizzano il ‘colore
locale’ e annientano l’iniziativa privata, che non può competere con il sistema
del corporate business. La disoccupazione e l’impoverimento culturale che
derivano da questo processo, insieme a considerazioni più generali, mi hanno
suggerito di attivare ‘Thinking Trade’. Un modo di toccare con mano uno dei
problemi più cogenti della città, senza la presunzione di trovare soluzioni”.
L’emporio offre ai visitatori situazioni
diverse. The Marx Lounge è una grande
libreria di Alfredo Jaar dedicata
alla lettura, Lee Mingwei propone un laboratorio di rammendo e decorazioni sartoriali dove le persone possono portare i propri abiti e farli
decorare/rammendare in tempo reale, Daniel Knorr scrive
sulla pelle di manichini viventi (esposti in vetrina durante i giorni
dell’inaugurazione) testi pubblicitari ripresi da multinazionali e agenzie
governative. Minerva Cuevas presenta
billboard e murales che parlano sia della storia della città (Liverpool è stato
un centro importante per la tratta degli schiavi d’oltreoceano, com’è ben
documentato all’International Slavery Museum), sia dello sfruttamento della
forza lavoro nella società globalizzata di oggi. E ancora Time/Bank di Julieta Aranda/Anton Vidokle e il Souvenir
Palace di Meschac Gaba, che reinventa oggetti quotidiani attraverso
l’iconografia africana.
Passeggiando per la città s’incontrano gli
interventi urbani di Do-Ho Suh, Emese Benczúr e Will Kwan.
Interessante la proposta della Tate Liverpool, che declina il tema Touched in azioni di carattere performativo con le opere di Eva Kot’átková, Wannes Goetschalckx e Jamie
Isenstein. Scelta che trova risonanze da A Foundation nell’opera Cut Papers di Sachiko Abe (composta da sculture di fili di carta che
l’artista ha tagliato in galleria) e nella
performance di Antti Laitinen:
un’improbabile navigazione del fiume Mercy a
bordo di una barca costruita con le cortecce d’albero raccolte nelle foreste
della nativa Finlandia.
Ma al di là delle singole opere, quello che
colpisce è la volontà di lavorare in rete e di costruire una nuova scena
artistica. “Stiamo
lavorando in collaborazione con la Biennale per ricostruire la vita economica e
culturale della città”, afferma Patrick Henry di
Open Eye Gallery. “Certo gli
incentivi economici sono determinanti, ma non si tratta solo di questo. Quel
che importa è il clima positivo che si respira: la città divenuta un luogo
potenziale in cui vedere e fare arte”.
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Intervista
con Lorenzo Fusi
lorenza pignatti
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 69. Te l’eri perso? Abbonati!
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