RIVESTIRE LA NUDA PIETRA

di - 1 Dicembre 2010
Chilometri e chilometri di recinzioni si parano di fronte
a chi si aggiri per la città di Roma, ne scortano il passeggio, lo obbligano a
peripli impensabili. Al di là delle delimitazioni, si levano le rovine antiche,
scarnificate e congelate in assetti che sono il risultato di un processo tutto
sommato recente, il cui apice si ebbe tra la fine dell’Ottocento e la prima
metà del Novecento. Allora la plurisecolare pratica del riuso di monumenti
antichi e rovine fu interrotta; templi, teatri e mausolei, raschiate via le
superfetazioni di epoca post-antica, furono portati fuori dal tessuto urbano e
dalla Storia, in un limbo desolante dove ancora fluttuano.

Negli ultimi tempi, tuttavia, più d’uno si è accorto
dell’inadeguatezza di questa soluzione. Si è sviluppata una riflessione sul
rapporto tra il monumento antico e l’area archeologica, da una parte, e la
città contemporanea, dall’altra. Sul ruolo che le rovine giocano nella nostra
società, sulla relazione tra archeologia e architettura. Tra le condizioni che
possono aver favorito lo sviluppo di tale riflessione andranno menzionati
almeno, a un livello più generale, il diffuso interesse, tra sociologi,
antropologi e urbanisti, per i modi in cui le persone vivono – o non vivono –
gli spazi urbani (si pensi soltanto ai “non-luoghi” di Augé, tra cui, accanto
ad aeroporti, stazioni e centri commerciali, potrebbero rientrare parecchie
aree archeologiche); la fioritura di studi sul reimpiego nel Medioevo e in Età
Moderna, nonché sulla stagione otto-novecentesca dei raschiamenti e degli
isolamenti; la discussione suscitata, prima di tutto fra gli stessi archeologi,
da alcune controverse sistemazioni di aree archeologiche (ad esempio il “buco”
del Portico d’Ottavia) e dalla vorace espansione di scavi illeggibili, che
attendono invano di essere ricoperti (come quelli lungo via dei Fori
Imperiali).

Sono stati proprio alcuni archeologi sensibili alla
dimensione sociale della loro disciplina a dare il via al dibattito, al quale
hanno preso parte sin da subito numerosi architetti. Meno presenti sembrano
essere gli urbanisti, a indicare che ci si è sinora interessati più all’aspetto
dell’intervento sul singolo monumento o sito piuttosto che al suo reinserimento
nel tessuto urbano; latitano, invece, gli storici dell’arte.

Tra le principali tappe della discussione meritano di
essere ricordati i due volumi che presentano tesi di laurea di argomento
archeologico discusse presso la facoltà di architettura di Roma 3 [1], i
seminari che si svolgono da diversi anni presso questa stessa università, ora
in parte raccolti in volume [2], le attività dell’area di ricerca Architettura e archeologie dello IUAV [3].
Ma è stato soprattutto il pamphlet di
Andreina Ricci, Attorno alla nuda pietra
(2006), ad accendere l’interesse intorno a questi temi presso un pubblico più
vasto della ristretta cerchia degli specialisti: con grande chiarezza,
l’archeologa ripercorre le vicende recenti delle rovine, dall’impiego
strumentale che ne fece il Fascismo alla successiva presa di distanza da ogni
uso ideologico, che si tradusse nella rinuncia a un’assunzione di
responsabilità, preludio al degrado dei siti e alla loro progressiva sparizione
dalla coscienza e dalla stessa percezione visiva dei cittadini, specialmente
nel caso dei tanti resti disseminati tra i palazzoni della Roma moderna, ai
quali giustamente Ricci dedica ampio spazio.

È giunto il momento di sanare le ferite e riconnettere
l’antico al nuovo, per garantire la fruizione e una migliore conservazione dei
resti, restituire porzioni enormi di abitato alla cittadinanza, creare spazi
pubblici, che suonino come una combattiva risposta alla progressiva
privatizzazione delle città [4]. Si tratta quindi di sostituire all’”uso pubblico della storia”, di cui parla
Ricci a proposito dell’utilizzazione delle rovine in epoca fascista, l’”uso pubblico del monumento storico”.

Questa strada può essere percorsa in due maniere distinte,
a seconda che si abbia a che fare con scavi o con strutture in elevato. I primi
occorre in molti casi ricoprirli, dando vita a piazze o spazi verdi e provvedendo
a creare, laddove la differenza tra il piano di calpestio attuale e quello
antico lo consenta, strutture ipogee che permettano la visita ai resti; idea
che già sostenne, purtroppo senza successo, Giuseppe Valadier [5]. Per quanto
riguarda gli edifici antichi, bisognerà provvedere ad attribuire loro una
funzione, che ne consenta un pieno reinserimento nella città contemporanea: non
si può quindi pensare al solo fine espositivo (il monumento classico come museo
di se stesso o come sede di mostre, come avviene ai Mercati di Traiano), ma a
una pluralità di utilizzi, possibilmente “alti” (biblioteche, centri di
documentazione, sale da concerto o per proiezioni…). Specialmente per quelle
strutture antiche situate in contesti ormai del tutto stravolti, come quelle
della periferia romana, il riuso appare una prospettiva inevitabile, che può
fare dei resti del passato i centri identitari di quartieri che, fra tanti
problemi, hanno anche quello di essere privi di un’identità.

L’architettura è chiamata a rendere possibile il reimpiego
attraverso interventi che siano però rispettosi delle strutture antiche. Il
compito non è facile: una suggestione viene da quanto fatto da David Chipperfield al Neues Museum di
Berlino. Non restauro, ma vero recupero di una rovina.

[1] Archeologia
e progetto
, Roma 2002 e 2009.

[2] Arch.it.arch. Dialoghi di archeologia e architettura, Roma 2009.

[3] In particolare, il convegno Luoghi dell’archeologia e usi contemporanei,
Venezia, novembre 2009, e gli omonimi workshop dedicati alla progettazione di
coperture e piccole strutture per siti archeologici.

[4] Cfr., per Roma, P. Berdini, La città in vendita, Roma 2008.

[5] Cit. da T. Kirk in M.
Barbanera (a cura di), Relitti riletti,
Torino 2009.

link correlati
mostreemusei.sns.it

fabrizio federici

osservatorio mostre e musei – scuola normale superiore, pisa


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