Inizio dicendo che quest’articolo sullo stato dell’arte (nello specifico contemporanea) a Roma ha una sua (mia) piccola storia fatta di speranze, attese, perplessità, pensamenti e ripensamenti. Agli amici, e non, che nei mesi trascorsi e in più di un’occasione mi chiedevano un’opinione sulla politica culturale e in particolare sulla via intrapresa nella gestione dell’arte contemporanea dall’attuale amministrazione, rispondevo invariabilmente che avrei atteso l’inverarsi dei fatti prima di giudicare e parlare. Ma proprio a questo proposito, direi soprattutto a questo proposito, c’è stato un graduale quanto irreversibile ripensamento, anche perché qualche fatto già c’è e di altri possibili sono ormai ampiamente note le intenzioni.
Ancora a premessa, e non secondariamente: come molti abitanti di questa straordinaria e complicatissima città, che ormai non è caput nemmeno dell’Italia figuriamoci del mondo, nel giugno del 2016 decisi di dare il mio consenso a un’alternativa dall’identità politico-culturale piuttosto incerta, sfavorendo quel noto e definito purtroppo privo di alcuna credibilità morale, oltre che politico-culturale. Nessun ripensamento su questo punto, anche e soprattutto per l’impossibilità di riconsiderare quel noto in termini diversi. Non è forse inutile precisare che non votare, o consegnare la scheda in bianco, non rientra tra le mie opzioni, considerando, com’è ovvio, quello del voto il momento fondamentale e fondante della democrazia. Anche se ammetto che forse su questo punto qualche ripensamento sarà possibile, se non necessario, a fronte della nuova legge elettorale in via di approvazione (nel momento in cui scrivo) al Senato che di fatto annulla il senso e il valore di un atto che la nostra Costituzione tutela con la nota chiarezza. Ma questi sono argomenti buoni eventualmente per un’altra riflessione. Riprendiamo invece le fila del discorso sulle scelte politiche e gestionali che si stanno compiendo per l’arte contemporanea nell’antica terra dei Quiriti.
Inizio con il dire che una delle aspettative principali che personalmente avevo rispetto al Movimento era quella relativa all’ascolto delle competenze presenti in città, e lo dico per la generalità dei diversi ambiti, per poi valutare priorità e scelte, quest’ultime da prendersi poi in quell’autonomia che spetta agli eletti e quindi a chi si è assunto la responsabilità di governare. La chiamavano partecipazione, e lo so scappa un po’ da ridere vista la storia di alcune, forse troppe, persone chiamate a contribuire o a gestire, sulle quali si è poi dovuto, o si è stati obbligati a, tornare sui propri passi. In ogni caso quello che mi attendevo, almeno allora, era uno scarto deciso nel metodo politico, e culturale, soprattutto di fronte allo scenario di rovine, evidentemente non solo archeologiche, nel quale eravamo e siamo. Quindi forte di questa convinzione ho cercato più volte di avere uno scambio di idee con l’Assessore alla crescita Culturale, esortando anche gli altri “addetti ai lavori”, a cominciare dagli artisti, a dare il proprio contributo di esperienza e riflessioni. Inutile dirvi che i miei tentativi non hanno avuto esiti, escluso qualche iniziale e cortese saluto di risposta e posticipazione dell’eventuale incontro a non meglio precisati tempi futuri. Tant’è, poco male, forse l’Assessore non avrà voluto vedermi per una qualche ragione anche personale e a me sconosciuta, ma forse e invece avrà dato ascolto ad altri “addetti ai lavori”. Invece no. Il mio ego ringrazia, le mie aspettative ne sono ancora più deluse. A questo proposito forse ricorderete che il 15 marzo scorso era stato diffuso un comunicato che invitava gli artisti per il 23 marzo ad un incontro con l’Assessore al Macro in via Nizza. Bene, ci siamo, mi dissi: finalmente si potrà discutere dei diversi punti di vista e magari arrivare a capire meglio quali sono le intenzioni e le possibilità per un cambio di passo nella gestione dell’arte contemporanea a Roma. “Ma de che?” (si usa dire in romanesco): il 20 marzo giunge un breve comunicato dalla segreteria dell’Assessore che disdice l’incontro a causa dell’assenza della Sindaca e dei conseguenti aumentati impegni dell’Assessore-Vicesindaco, dando disponibilità a fissare una nuova data. Ovviamente siamo ancora in attesa. Essendo però un tantinèllo (e non è romanesco) ostinato, il 6 giugno successivo mi reco alla Conferenza sui Musei Civici a Palazzo Braschi, vestendo i panni non propriamente per me abituali del giornalista. C’è l’Assessore e quindi da bravo giornalista alla fine faccio una domanda piuttosto articolata, e cioè: in che modo si sta pensando di attuare la fusione tra Palaexpo e Macro? e in che modo si intende cambiare la missione di quest’ultimo in un centro di produzione? e last but not least, se, come per Zètema e per il Palaexpo, c’è l’intenzione di lanciare una call pubblica per la nomina in questo caso del direttore o curatore del museo. L’Assessore di fatto non risponde, appare anzi un po’ infastidito, ed io terminata la conferenza vengo assediato da un bel gruppetto di giornalisti che con tono tra il sorpreso e lo scandalizzato mi dicono “ma l’assessore non ti ha risposto!”; “e si, me ne sono accorto”, non posso che rispondere a mia volta. Non male, penso (intendo fare il giornalista).
Palazzo delle Esposizioni
Veniamo dunque, finalmente, agli argomenti oggetto della mia domanda, come si dice, inevasa.
Com’è noto è stato deciso di affidare all’Azienda Palaexpo le funzioni di programmazione e di gestione del
Palazzo delle Esposizioni, del Macro (via Nizza e Testaccio) e della
Pelanda all’ex Mattatoio, mentre la gestione della
Casa del Jazz passerà dal 1 gennaio 2018 alla
Fondazione Musica per Roma. Alla delibera n.126 del 27 dicembre 2016 è seguito un contratto di servizio triennale (del 27 giugno 2017), valido dunque fino al 31 dicembre 2019, grazie al quale sarà possibile una programmazione nel medio periodo, ecc., ecc.. Se desiderate più dettagli compreso l’ammontare delle risorse messe a disposizione (che comunque sono di 12.487.700,26 euro IVA inclusa per ciascuno degli anni 2018 e 2019),
trovate tutto qui. L’obiettivo dichiarato è quello di creare un Polo del Contemporaneo in stretta collaborazione con l’Istituzione Biblioteche. E questo, signore e signori miei, è già un fatto.
Ma cosa c’è dunque che non torna in questa specie di fusione a freddo, tesa senz’altro all’ottimizzazione di servizi e risorse, e che tra l’altro prevede l’uscita di Zètema dalla gestione dei servizi museali del Macro e della Pelanda?
Iniziamo con il dire che sommare le pere con le mele è sbagliato. Non si può fare. Possiamo comunque decidere di sommare 3 chili di frutta con 3 chili di farina e avere un totale, ma quest’ultimo non potrà mai essere esente dalla distinzione delle differenti qualità di ciò che lo compone. Sommare uno spazio espositivo, un contenitore, con uno spazio museale dotato di una collezione, corrisponde più o meno alle stesse impossibilità. Certo si può caricare tutto sullo stesso portapacchi e trasportarlo da qui a lì, ma a meno di cambiare la natura dell’uno o dell’altro lungo il tragitto, alla fine i due saranno cose diverse come lo erano all’inizio. Ecco, quello che mi preoccupa innanzitutto capire è se sia stata valutata nel giusto modo la differenza esistente tra queste due strutture che, secondo il contratto citato, dovranno corrispondere ad un’unica centrale di programmazione e di gestione. E se invece lo è stata, se si pensa lungo il tragitto, che va da oggi al 31 dicembre 2019, di cambiare la natura di una delle due, ed eventualmente in che modo?
La preoccupazione maggiore è naturalmente per il Macro.
Costato
a tutti noi cittadini 27 milioni di euro, la storia del Macro è stata quanto mai travagliata, ma soprattutto bisogna finalmente dire con estrema chiarezza che questo museo non è riuscito in tanti anni a diventare parte attiva ed essenziale della vita artistica, culturale e sociale della collettività capitolina, non riuscendo a lavorare in modo sistematico e convincente sul territorio, per poi costruire sugli esiti di questa attività quella rete internazionale altrettanto necessaria. Le cause di questo fallimento sono diverse, ma di certo per una buona parte fanno capo al dominio esercitato da quei gruppi di potere che a suo tempo ne monopolizzarono la gestione, creando la sensazione che il Macro fosse cosa loro, per poi finire ad essere considerato dalla politica solo come un fastidioso problema al quale destinare la minor quantità di risorse possibili, rendendolo così una specie di location di lusso a disposizione di chi aveva risorse, con le ovvie conseguenze di una graduale quanto inesorabile perdita di prestigio e identità.
G. Piranesi, Veduta del romano Campidoglio con scalinata che va alla Chiesa d’Aracoeli, 1757
Ma va detto con altrettanta onestà che a tutti quelli che avevano avuto un diretto interesse o impegno nel Macro era sempre stato chiaro che il museo per poter davvero funzionare avesse bisogno di un’autonomia artistica, finanziaria e gestionale. Si tentò così più volte di dare vita ad una fondazione, per poi passare ad una soluzione di ripiego con la creazione di un ufficio e di un centro di spesa autonomo nell’Assessorato di competenza, in modo da sganciarlo dalla Sovrintendenza Capitolina. Gli sforzi fatti in questa direzione furono diversi e ad opera di diversi, perché la cosa aveva un senso e lo ha ancora oggi, come comprende chiunque abbia un rapporto non occasionale con l’arte contemporanea e con l’attività di musei di questo tipo in Italia e all’estero. Ma per quelli che sono meno avvezzi all’argomento, spieghiamo che sono molte le ragioni che danno forza a questa necessità: dalla qualità e dal controllo della gestione finanziaria, ivi compreso il recupero di risorse diverse da quelle pubbliche, all’efficientamento dell’organizzazione della struttura, dei servizi e del personale; tutti aspetti che hanno un peso decisivo a loro volta sulla direzione artistica del museo e quindi su tutte le sue attività, da quelle espositive temporanee a quelle relative alla gestione della collezione e al suo incremento, fino alla didattica e al complesso di attività collaterali come incontri, dibattiti, programmi di visit studio sul territorio, residenze di artisti e curatori, premi, protocolli d’intesa e di collaborazione con accademia e università, e così via.
Ora la situazione che si va profilando è sostanzialmente diversa, anche se ad uno sguardo superficiale potrebbe invece apparire come il raggiungimento di quell’obiettivo. A parte le differenze, alle quali accennavamo, tra un contenitore di mostre, com’è il Palaexpo, e un museo dotato di una propria collezione e di funzioni come la ricerca, la didattica, la biblioteca e la videoteca, com’è il Macro, l’altro problema che s’intravede all’orizzonte è la perdita definitiva delle risorse necessarie alla sua stessa esistenza come museo. Sappiamo che quelle pubbliche non sono sufficienti – anche se qui sarebbe proprio il caso di aprire un bel dibattito sulle priorità, se destinare cioè risorse ad una struttura pubblica invece che distribuirle con bandi i cui esiti, intendo i prodotti dei vincitori, lasciano perlomeno perplessi –, e che quindi si renderà necessaria la ricerca di risorse esterne, dei famosi privati. Ora ce la vedete voi un’azienda scegliere di sostenere un evento o un programma del Macro di via Nizza o del Testaccio, quando dall’altra parte ha il Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale con una missione espositiva, al momento pare quella scientifica, ma che qualunque sarà non è difficile immaginare sarà in grado di fare numeri di un certo peso? Io no. E purtroppo nel bene e nel male ne ho una certa esperienza. E cosa farà a quel punto la centrale di gestione e di programmazione unica? Costringerà l’azienda a investire risorse sul Macro? e in caso di diniego perderà le risorse? Io non credo proprio. Più realisticamente accetterà la scelta e le condizioni imposte, cercando poi nella logica del suo bilancio di rimbalzare quanto possibile sulla parte debole della sua struttura, cioè il Macro. [Continua]
Raffaele Gavarro
*Quanto fu grande Roma, lo testimonia la sua stessa rovina.
La frase è comunemente attribuita a Ildeberto di Lavardin (1056–1133) Vescovo di Le Mans e Arcivescovo di Tours.