Il Salone del Mobile, il più importante evento a livello internazionale per il design e all’arredamento, la fiera che celebra le eccellenze dell’Italian Style, da sempre in overbooking. Qual è la ricetta del suo successo? Vogliamo porci questa domanda a 15 giorni dall’inaugurazione di Expo, al taglio del nastro dell’ultima edizione dell’evento che più di ogni altro ha legato il suo nome a quello della città di Milano e che deve il suo successo al territorio che con orgoglio rappresenta.
Il Salone del Mobile non è solo la manifestazione degli imprenditori del legno-arredo, uno dei comparti più importanti dell’economia nazionale, ma è anche il momento dedicato alla promozione della filiera di artigiani, specialisti e delle tecnologie di cui tutto il mondo si serve e che dovremo difendere con più vigore, per parafrasare una nota dichiarazione di Carlo Luti, patron di Kartel nonché ex presidente del Cosmit.
Nato nel 1961 per promuovere le esportazioni italiane di mobili e complementi d’arredo, il Salone del Mobile, anzi I Saloni, di strada ne hanno fatta molta. Per comprenderlo è sufficiente dare un occhio ai numeri. 350 mila visitatori per questa edizione provenienti da più di 160 Paesi, 2.010 espositori distribuiti in oltre 200mila metri quadri di area espositiva e 1.200 eventi in calendario.
Il mix vincente? Forse la combinazione fra la valorizzazione delle eccellenze del Made in Italy, una fortissima caratura internazionale, la gestione diretta in capo ad un soggetto – il Cosmit – espressione diretta del comparto promotore, un programma ricchissimo di eventi ed esposizioni spalmati su tutta la città e un legame storico, produttivo e simbolico con Milano, divenuta a tutti gli effetti la DesignCapital d’Italia, e forse del mondo.
A differenza del brand e del modello Expo, itinerante per vocazione e opportunità solo per le città in grado di coglierla, il Salone è una manifestazione legata a doppio filo al territorio in cui si svolge e alle imprese del settore. In comune i due eventi hanno la volontà di mettere in scena la creatività e i prodotti dell’ingegno umano, ma le vicende che caratterizzano il loro svolgimento nell’area milanese sono ahimè diametralmente opposte. Se il Salone vive insieme alla città di Milano, che anima dai padiglioni alle strade in strettissima sinergia con i player locali, non altrettanto accade con Expo. È sufficiente interrogarsi su come i soggetti preposti alla sua governance si siano relazionati con il territorio e i suoi stakeholder per comprendere come fra i due eventi vi sia una differenza abissale.
Se il Salone del Mobile è cresciuto negli anni andando ad integrare passo passo elementi come il Salone Satellite, il Fuori Salone e le biennali tematiche, allargando sempre più il dialogo con le aziende, i creativi e il territorio, Expo ha iniziato il suo percorso chiudendo la porta in faccia agli stakeholder privati, negandosi a lungimiranti partnership pubblico private per acquistare i terreni a costo d’esproprio, sognando una visionaria exit strategy da oltre 300 milioni di euro.
Il tutto è stato possibile proprio perché Expo è un evento in cui il pubblico, nei suoi vari livelli di governo, può fare il bello e il cattivo tempo. Ancora una volta l’acquisto dei terreni si rivela un momento chiave per comprendere molti dei fatti degli ultimi anni: la disponibilità delle aree era un elemento fondamentale per vincere la candidatura, ma procedere con un comodato d’uso e legarsi ai proprietari delle terre – Gruppo Cabassi e Fondazione Fiera – per il post evento era troppo vincolante. Così è bastata un’ordinanza che permettesse al Sindaco di Milano, Commissario Straordinario per Expo, di “attuare tutti i provvedimenti necessari per entrare nelle disponibilità delle terre indicate nel dossier di candidatura” per scegliere la strada più in linea con la strategia messa a punto a tavolino.
Che l’acquisto dell’area fosse lo step propedeutico ad una gestione degli appalti senza interlocutori estranei al sistema è un dubbio che resterà sempre a Marco Cabassi, e non solo a lui. Fatto sta che i lavori di costruzione sono iniziati ad ottobre 2011 – con un ritardo tale che si fatica a credere alla mera inefficienza – e che già il maggio dell’anno seguente la Procura di Milano ha aperto il primo fascicolo. Le principali inchieste e scandali sugli appalti ormai li conosciamo tutti così bene che diventa sempre più difficile credere che la facoltà di operare in regime di emergenza, con affidamenti diretti, non sia stata effettivamente cercata con un’innaturale ritardo sui lavori, così da oliare a regola d’arte gli ingranaggi di un sistema che insegue unicamente il proprio tornaconto.
Era questo il meglio che Milano e l’Italia potevano trarre dall’opportunità Expo? E ancora, cos’è Milano per chi presiede ad Expo2015? Spazio d’elezione o un contenitore temporaneo come un altro?
L’Esposizione Universale dovrebbe stimolare il confronto sul progresso, educare la società civile, creare una piattaforma per il dialogo internazionale, presentare i traguardi più ambiziosi raggiunti dall’uomo. Una nobile vocazione, che poi deve scendere a patti con la realtà.
Dall’altro lato dell’economia – nel mondo dell’impresa for profit – c’è invece un evento, lascito delle grandi famiglie del mobile e del design italiano, che pur nascendo con una vocazione dichiaratamente commerciale è tutt’uno con il territorio e con il comparto economico di cui è espressione e di cui persegue gli interessi.
La formula del Salone si rivela vincente perché è l’espressione di un settore economico che, nonostante la crisi acuita dalla malapolitica e dalla corruzione, continua ad investire sull’innovazione e sulla qualità. Imperativi che le aziende italiane devono darsi per uscire dalla feroce crisi che le attanaglia e da un mondo dominato da favori e favoritismi per avviarsi verso la ripresa.
Nonostante la paralisi del mercato interno, la distanza dalle istituzioni, la mancanza di collaborazione da parte delle ambasciate e il dover fronteggiare problemi come l’autofinanziamento, la complessità delle procedure doganali per l’export e la difesa dalle contraffazioni le imprese italiane del design e dell’artigianato riescono ancora a dare vita alla più importante manifestazione del settore. Con il 2015 l’evento ha acquisito un significato in più: testimonia cosa l’Italia sa fare e può essere, un messaggio chiaro per prendere le distanze dai molti errori commessi nell’organizzazione della sfortunata Esposizione Universale. La tribuna migliore per comunicare al mondo che l’Italia e il suo tessuto imprenditoriale sono molto più di Expo Milano 2015.
Stefano Monti