PRIMA DI TUTTO, IL COLLEZIONISMO
Per un lungo periodo dopo l’indipendenza, l’India ha chiuso le sue frontiere agli scambi con l’estero, aprendosi solo nel ‘91 grazie a una serie di riforme che hanno liberalizzato l’economia. Da allora nel Paese è avvenuta un vera e propria rivoluzione sociale che ha portato alla nascita di grandi fortune e all’affermazione di una classe prima quasi inesistente, quella borghese che si stima sia costituita da duecento milioni di persone. Questa nuova classe sociale – sebbene limitata al 17% della popolazione, in termini assoluti è enorme e dispone di un potere di acquisto per i beni di consumo di cento miliardi di euro l’anno – ha favorito il nascere di un collezionismo. Come sostiene però il gallerista newyorchese Peter Nagy – primo straniero ad aver aperto una galleria a Delhi già nel 1997 -, il mercato dell’arte del Subcontinente è completamente “indianocentrico”. Un mercato composto non solo da indiani residenti in India, ma anche da quelli che vengono definiti gli NRI (Not Resident Indian), gli indiani della “diaspora” che si sono trasferiti prevalentemente in Inghilterra e negli Stati Uniti e in questi Paesi hanno fatto fortuna.
La forte matrice indiana del collezionismo ha fatto sì che l’attaccamento alla tradizione rendesse lento il processo di sperimentazione degli artisti – in termini di linguaggi e media – che si è verificato solo negli ultimi dieci anni. L’opposto di quanto accaduto in Cina dove, invece, il forte interesse del collezionismo internazionale ha incentivato da subito la sperimentazione.
In questo percorso ha ovviamente giocato un ruolo fondamentale la situazione culturale profondamente diversa nei due Paesi: se le nuove generazioni di artisti cinesi, infatti, sono cresciute all’ombra della rivoluzione culturale in cui l’“uomo nuovo” era il punto di riferimento e la propria antichissima tradizione culturale un tabù, gli artisti indiani invece hanno seguito un percorso più lineare coltivando e semmai contestando o integrando la propria cultura con quelle portate dalle continue incursioni straniere.
IL VALORE DELLE OPERE
La natura indianocentrica del mercato spiega perché le opere di artisti indiani anche giovani (fra i trenta e i quarant’anni) arrivino da noi a prezzi già elevati rispetto alla notorietà dell’artista. In realtà spesso gli artisti in questione sono già molto quotati in India, hanno esposto a Bombay e Delhi, e magari anche a Londra e New York dove, s’è detto, la presenza di collezionisti indiani giustifica la scelta di molti musei e galleristi. Sembra però che questo non basti a “sdoganare” un artista indiano e non ne giustifichi le quotazioni.
Allora cos’altro frena il nostro mercato rispetto all’arte di questo Paese?
Quello che è un punto di forza degli artisti indiani non sempre viene premiato: la loro estetica resta fortemente riconoscibile e non ha ancora – e ci si augura non lo faccia mai – ammiccato al mercato occidentale. E in un mondo globalizzato che tende a omologare tutto, questo dovrebbe essere un valore premiante.
Scendendo nei particolari, esistono dei caratteri peculiari che contraddistinguono la maggior parte della produzione artistica indiana contemporanea: l’uso del colore, l’iperdecorativismo (che spesso può trasformarsi in un gusto esplicitamente kitsch), la riflessione sulla condizione della donna, il legame con la società, il richiamo – anche per reazione e contestazione – alle tradizioni culturali e religiose del proprio Paese. Tutto questo rende riconoscibile e originale la produzione artistica indiana. Parliamo non solo degli oggetti di uso quotidiano che così esplicitamente fanno parte del lavoro di un artista ormai internazionalmente affermato come Sobudh Gupta, ma anche delle forme e dei colori della cultura Punjabi che il duo Thukral & Tagra sapientemente mescola a linguaggi moderni, delle coloratissime statue di Ravinder Reddy, che rilegge in chiave pop la tradizione statuaria hindu, o del richiamo alla tradizione miniaturistica usato nella narrazione da Dhruvi Acharya. E l’elenco sarebbe ancora lungo.
LE GALLERIE INDIANE
Tuttavia le cose stanno rapidamente cambiando e negli ultimi dieci anni si sono completamente rivoluzionate: l’India in pieno boom economico si è aperta a un Occidente sempre più assetato di nuovi sbocchi economici e culturali. Questo fenomeno ha portato da una parte a un’apertura del collezionismo indiano che, frequentando sempre più spesso gallerie e fiere internazionali, ha iniziato ad apprezzare dei propri artisti anche nuovi linguaggi (fotografia, installazioni, video); dall’altra a un maggior confronto di questi artisti con i loro colleghi soprattutto europei e americani, innestando nuova linfa e nuova sperimentazione nei lavori.
Il proliferare di gallerie e il nascere dei primi musei nel Subcontinente è uno dei sintomi di questa grande vitalità.
Agli spazi storici come la Chemould si sono aggiunte nuove gallerie come la Chatterjee&Lal, la Sakshi, la Gallery Maskara e la Project 88 a Bombay, la Palette Art Gallery oltre alla più nota Nature Morte a Delhi, la Anant Art Gallery con sedi a Delhi e Calcutta.
Ad agosto 2008 i collezionisti Lekha e suo figlio Anupam Poddar hanno aperto a Delhi la Devi Art Foundation, di fatto il primo museo di arte contemporanea indiano.
Un sistema privato che cerca di sopperire ai limiti dello Stato (altra differenza rispetto alla Cina dove, negli ultimi anni, il pubblico ha recuperato il gap) che solo di recente inizia a dare qualche segnale: a Calcutta una joint-venture tra il governo del West Bengala e un’impresa privata sta realizzando il primo museo di arte moderna indiano (Kmoma – Kolkata Museum Of Modern Art), disegnato dagli svizzeri Herzog & de Meuron, che aprirà nel 2013.
Altro sintomo dei cambiamenti in atto è l’India Art Summit: quest’anno alla sua seconda edizione (Delhi, 19-22 agosto), è la prima fiera d’arte moderna e contemporanea indiana. Un evento importante perché per la prima volta l’India – almeno sulla carta – apre il proprio mercato ai galleristi esteri che a oggi sono quasi completamente assenti. Tranne rare e illuminate eccezioni come Thomas Erben e la sua collaborazione con la Chatterjee&Lal, Matthieu Foss che a Bombay si è specializzato sulla fotografia e il pioniere Peter Nagy.
IN ITALIA
In Italia la new wave indiana si è imposta con una certa gradualità. Negli ultimi tre anni Milano, Torino, Roma (sebbene in misura sensibilmente inferiore), San Gimignano e persino Casoria (Napoli) hanno dedicato all’arte contemporanea indiana diverse mostre in spazi sia pubblici che privati che hanno tenuto il passo con le grandi mostre europee.
Per quanto i collezionisti italiani siano ancora diffidenti e – soprattutto in un momento d’incertezze come quello attuale – sembra preferiscano non avventurarsi alla scoperta di nuovi linguaggi ancora difficili da comprendere per la loro sensibilità, nell’arte come nell’economia, l’India sta dimostrando di essere meno dirompente nella sua penetrazione, ma anche più solida perché, come abbiamo detto, può contare su una crescente domanda interna anche culturale.
Così complessa e piena di tensioni l’India non può che generare una cultura – letteraria, cinematografica, artistica – forte e stimolante che supera le mode e la rende oggi “il Paese meno noioso del mondo”.
maria teresa capacchione
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 57. Te l’eri perso? Abbonati!
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