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di - 25 Settembre 2008
Ora e sempre, truppe cammellate. Son così le preview dei grandi eventi artistici. Se poi ci si deve muovere fra sedi collocate in diverse cittadine, allora i ranghi si stringono. E i tempi pure, nella calca generata da conferenze stampa e appunti sul taccuino. Forse stupirà, ma gli “addetti ai lavori” sono particolarmente docili, pigri al punto da non contemplare l’ipotesi di spostarsi pedibus calcantibus da un luogo all’altro d’un agglomerato alpino, sia mai procurarsi un’auto e muoversi in autonomia. Ogni volontà di gestire la propria estetica, il proprio spazio-tempo, è sopita a suon di timeline. Le mappe, se mai c’erano, vengono stracciate. E dire che la Fondazione Manifesta se le va a cercare col lanternino le aree geografiche dove s’annidano più o meno aspri conflitti: Paesi Baschi e Cipro, per dire le ultime due edizioni.
Messo a parte dell’omicidio di Kennedy, Malcolm X commentò: “Chi la fa, l’aspetti”. Poco dopo moriva assassinato. Calibrando pesi e misure, si potrebbe dire che a Manifesta è accaduta la medesima cosa. Avvicinatosi al triangolo Trentino-Alto-Adige, il lanternino ha creato tali baluginii da far perdere la bussola in primis ai curatori.
Quel ch’è mancato è la figura del wayfinder. Intendiamoci: non che il percorso “obbligato” sia indispensabile; ma più è complessa l’ipotesi, tanto più è doveroso fornire precisi strumenti di navigazione. Allo scopo di facilitare la comprensione dell’ipotesi stessa e il sorgere di eventuali critiche. Nella fattispecie, benché gli scenari offerti nelle varie sedi/mostre/ipotesi siano piuttosto differenziati, comune è la lacunosità da questo punto di vista.

A Fortezza, dove opera il pool curatoriale al completo, l’unione ha fatto la debolezza. Bussola irrimediabilmente perduta, nessuna stella o sestante o gps a soccorrere il visitatore. Che, irridendo Heidegger, diremmo si ritrova gettato in un paesaggio, in parte antropizzato, che prende il sopravvento sulla mappa/mostra/ipotesi. Una mappa resa cieca e, a dispetto della tipologia delle “opere” in mostra, pure muta. Fantastico è aggirarsi per il forte asburgico, ristrutturato ad hoc e in maniera notevole; inebriante calcare i ponti sospesi sull’Isarco; ma viene il momento nel quale ci si rammenta che dovrebbe pure esserci qualcos’altro, e che si è là per quello. Il periodo amnestico, durasse anche solo pochi minuti, è di un’eloquenza assai superiore a quella delle ore di parole registrate in cui consiste l’exhibition.
L'ex Palazzo delle Poste a Trento - photo Giovanni Cavulli
A Trento si ritrova la mappa perduta. Però è un dépliant per routard radical-chic. È un pieghevole autopoietico, un blob schizofrenico o bipolare. Perché da un lato i micro-musei lungo i quali vengono raccolte le opere sono zeppi all’inverosimile di citazioni e spunti e riferimenti eruditi; dall’altro, quegli stessi spunti e riferimenti e citazioni sono offerti con una certa sufficienza. L’impressione è che il sottotesto sia: “Forse riusciremo a insegnare qualcosa a questa massa di ignoranti”. Allora perché non usare un percorso lineare, agevolmente percorribile anche dagli idioti, che non potranno perdersi in vie alternative inesistenti? Un incubo socialdemocratico. E poi via, saremo pur zotici in Italia, ma venirci a spiegare chi era Franco Basaglia è irritante.

A Rovereto, doppio passo per unico curatore. Alla Manifattura Tabacchi è soggiogato dal numero di punti d’interesse tratti dalla sua mappa mentale, che segnala al gentile pubblico senza scordarne manco uno. E il senso del percorso ovviamente si perde. Provate a infilzare un centinaio di bandierine su una cartina dell’Emilia, di quelle per la scuola media, e nemmeno capirete più di che Regione si tratta; figuriamoci trovare una strada o un affluente. Così, il disorientamento in mostra è tale che, paradossalmente, l’effetto è simile a quello sortito a Trento: in quest’ultimo caso, l’architettura (curatoriale) costringe a seguire un percorso; a Rovereto, l’assenza di coordinate provoca un fatalistico abbandono alle imperscrutabili intenzioni del curatore. Cosicché si vaga col medesimo passo strascicato del condannato con la palla teoretica al piede. Meglio assai è la sezione allestita nel white cube poco distante – certo, è una ex fabbrica… -, che però fa l’effetto dell’ora d’aria: quando si torna in cella è peggio che pria.

Prima di giungere al capolinea, si tenga a mente l’esistenza del “Manifesta Journal”, il Journal of Contemporary Curatorship, ottima rivista di approfondimento. A Bolzano, la mostra indubbiamente meglio riuscita di Manifesta 7 è curata da Raqs, un collettivo di artisti indiani. E vi si trova una straordinaria mappa, Europolis di David Adjaye, architetto originario della Tanzania.

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marco enrico giacomelli


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 52. Te l’eri perso? Abbonati!

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  • Se posso dire trovo quasi ridicola l'importanza che si dà a questa rassegna, non parlo solo di questa edizione ma anche delle altre a partire almeno dalla prima che ho visto, quella in Slovenia: Fin dall'inizio
    Manifesta ha presentato artisti dei cosidetti paesi emergenti ,in particolar modo europei,
    che si contrassegnavano in buona parte però per qualche nostalgia per i tempi o gli ideali astratti che si potevano coltivare prima della caduta del Muro: Da qui l'adozione acritica e ritatdata di modi e mezzi già ampiamente visti e sperimentati nei paesi più avezzi alle cosidette neoavanguardie, con sciatte rassegne di stracotte e banali installazioni, pseudo concettualismi e ipotesi polotiche inconcludenti, insomma invece della pittura figurativa bollata come reazionaria e passatista il manierismo codificato delle neoavanguardie di riferimento; in altre parole mostre da studenti: Quest'ultima edizione conferma il linguaggio banale e conformista da rifondaroli senza speranza dei curatori e il diletantismo dei partecipanti, in gran parte dei quali non artisti ma architetti falliti , sociologi falliti, designer falliti e agit prop inefettuali

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