Sta accadendo qualcosa di quasi unico nella storia umana (se si esclude forse l’inizio del Settecento): i vecchi sono più creativi dei giovani. In un’epoca come questa, legata a doppio filo a pratiche come il remake, il remix, la cover e il riuso, non può stupire del resto che gli ultimi esponenti della creatività modernista riescano meglio dei loro allievi postmoderni.Così, nel cinema internazionale può capitare che Martin Scorsese, classe 1942, realizzi un film che sembra l’opera prima di un trentenne (The Departed, 2006), per freschezza di linguaggio ed efficacia del messaggio. Oppure che David Cronenberg (1943) si liberi finalmente del discorso sulla carne e agganci direttamente, senza tanti fronzoli, l’identità contemporanea (A History of Violence, 2005). O che sia lo stesso Robert De Niro (1943) a creare, con The Good Shepherd (2006), il più grande affresco della storia americana recente dopo il dittico ellroyano, American Tabloid-Sei pezzi da mille.
Mentre il pur incartapecorito Clint Eastwood (1930) accede pienamente e meritatamente al ruolo di Howard Hawks contemporaneo. Se Flags of Our Fathers è ancora legato agli schemi del cinema di guerra novecentesco, Letters from Iwo Jima è un oggetto straniante, di una compostezza terrificante, in cui forma e contenuto si compenetrano in maniera talmente radicale da identificarsi l’uno con l’altra. E David Lynch (1946) ha trovato in Inland Empire (2006) il suo capolavoro entropico e dispersivo, la summa di tutti i suoi temi e delle sue ossessioni.
Invece, sul fronte dei giovani-non-più-giovani, dopo che persino Quentin Tarantino (1963) ha dato i primi evidenti segni di stanchezza con Kill Bill (2003-2004), può capitare che Steven Soderbergh (1963) si smarrisca nelle sabbie mobili dell’accademismo vuoto e dell’esercizio di stile (The Good German, 2007) o che Alejandro Gonzales Inarritu (1963) si abbandoni precocemente al manierismo e all’autoreferenzialità (Babel, 2006).
Sofia Coppola (1971), intanto, annacqua il preludio alla Rivoluzione Francese in salsa Mtv (Marie Antoinette, 2006). Per non parlare del recente Sunshine (2007) di Danny Boyle (1956), insulso e decorativo omaggio a 2001: odissea nello spazio di Kubrick e a Solaris di Tarkovskij, in chiave stucchevolmente new age. Sembra il film di un regista ottantenne che si è definitivamente arreso alla vita e alla morte. Ed è anche l’ennesimo esempio, se ce ne fosse ancora bisogno, di un autore una volta promettente, ormai completamente allo sbando.
L’unico a salvarsi -ma pur sempre pericolosamente sull’orlo del baratro intellettualistico edartistoide- è il Christopher Nolan (1970) di The Prestige (2006).
In Italia, poi, la situazione è più tragica del solito: per un Monicelli (1915) che realizza finalmente, dopo lunghe peripezie, il godibilissimo Le rose del deserto, i giovani “talenti” sono inchiodati irrimediabilmente ai romanzetti d’appendice (Ho voglia di te) o alle varie e tutte uguali Notti prima degli esami. “Cioè” ha finalmente conquistato il grande schermo: “Il licealismo […] è l’unica ideologia rimasta dopo che sono cadute tutte le altre? Il licealismo è il movimento reale che cambierà la situazione attuale?
Sull’imbarazzante Nuovomondo (2006) di Emanuele Crialese (1965), infine, spacciato dalla critica nostrana come la rinascita decisiva del Grande Cinema Italiano, è meglio stendere un velo pietoso. Un’opera fatta letteralmente di niente in teoria è un capolavoro, è il sogno irrealizzato di Flaubert. Più difficile è metterla in pratica senza scivolare nell’inerzia da una parte, e nella retorica dall’altra.
A ben guardare, però, tutti i campi della cultura -arte compresa- sono invasi da quest’inedita senilità. Il più bel disco del 2006, infatti, è senza dubbio Surprise di Paul Simon (1941), non proprio un cantautore emergente. Assistiamo impotenti alle reunion, avvenute o minacciate, dei gruppi anni ’70-‘80 (Police, Genesis ecc.) e gli Stooges, con The Weirdness (2007), fanno giustamente mangiare la polvere ai loro vari cloni ventenni in all-star e giubbottini d’ordinanza.Che succede? Succede che, appunto, gli autori che hanno conosciuto il tardo modernismo e la sua fine, tra anni ’60-‘70, hanno sperimentato e usato quell’unità concettuale che per noi è ormai soltanto un mito, più o meno fulgido. E conservano quella forza originaria e primigenia (altrimenti nota come “l’energia del rock”), incanalandola e convogliandola in una nuova concezione, pienamente postmoderna, del classicismo.
christian caliandro
[exibart]
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che palle 'sto "millennio"
la storia si divide in secoli
MA che articolo inutile!! Un elenco opinabile di "mi piace" "non mi piace"!...
troppo facile parlare solo di coloro che fanno comodo a tale ragionamento. troppo facile escludere, ad esempio, kim-ki-duk, lui sì uno che lavora sul linguaggio e sulla forma, altro che l'ultimo scorsese che a me non pare affatto un trentenne ma un anziano maestro pieno di mestiere che tenta disperatamente di ottenere quell'oscar troppe volte negatogli. dove sarebbe la sua ricerca di linguaggio in departed??? entriamo nel dettaglio piuttosto che sparare etichette a caso.
il discorso sul liceismo poi, fatelo ai produttori ottusi, non ai giovani registi, che fanno cortometraggi disperatamente meravigliosi ma che muoiono sul nascere. vorrei proprio vedere il giovane godard che cerca di ottenere fondi per la sua opera prima, oggi, ma chi se lo filerebbe? i produttori liceisti?
firmato
un giovane regista
Invece è tutto vero. Anche se i giovani degli anni 60-70 potevano partire da una sorta di tabula rasa che facilitava le cose.Come a dire che prima o poi sarebbe saltato fuori un duchamp se prima non c'era nulla.Poi i giovani oggi hanno paura e la paura frena e non permette di osare. Inoltre i vecchi non vogliono mollare l'osso in una sorta di ricerca dell'immortalità. Queste due cose creano una miscela micidiale.
in effetti la premessa è interessante. Valeva la pena entrare nel merito e nel dettaglio piuttosto che fermarsi alla superficie.