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Spot per l’arte (II parte)
Politica e opinioni
di alfredo sigolo
La promozione di nuovi modelli di vita è una strategia ampiamente impiegata nella comunicazione del mercato globale. Non prodotti o marchi sono oggetto delle campagne pubblicitarie delle grandi multinazionali, ma piuttosto valori, quei valori di cui la società contemporanea è sempre più bisognosa. E chi, se non l'arte, può offrire stimoli inesauribili a veicolare messaggi concettuali attraverso la forma e l'immagine...?
La promozione di nuovi modelli di vita è una strategia ampiamente impiegata nella comunicazione del mercato globale. Non prodotti o marchi sono oggetto delle campagne pubblicitarie delle grandi multinazionali, ma piuttosto valori, quei valori di cui la società contemporanea è sempre più bisognosa. E chi, se non l'arte, può offrire stimoli inesauribili a veicolare messaggi concettuali attraverso la forma e l'immagine...?
Dopo la Happy Valley, la Diesel s.p.a., multinazionale veneta dell’abbigliamento, ha lanciato, un paio di mesi fa, una nuova campagna pubblicitaria per promuovere la collezione autunno/inverno. Di nuovo, pubblicità, moda ed arte si trovano a dialogare con efficacia, a parlare linguaggi comuni.
Nel sito dell’azienda è stavolta pubblicato un finto portale no-global, dal titolo Action! Global protest guide. L’iconografia è tipica delle ideologie antagoniste, la propaganda e l’immaginario rimandano evidentemente ai più recenti movimenti politici giovanili, alle manifestazioni di piazza, alla cultura alternativa. Sono i contenuti ad essere però assolutamente spiazzanti: glislogan denunciano concetti assurdi, inaugurano campagne inconsistenti, infantili e risibili (“Rispetta la mamma!“, “Più semafori verdi!”, “Legalizza 4 giorni di weekend”, ecc.). Lungo le strade dell’ironia e del non-sense ci si imbatte in una serie di vicoli ciechi che, in forward, rinviano sempre alle stesse sequenze fotografiche, in cui le campagne pubbliche di protesta, i frame apparentemente rubati alla cronaca, sono un mero pretesto per mostrare giovani attivisti in divisa: al posto delle tute bianche, i capi marchiati Diesel .
Con un’operazione di pubblicità al contrario, l’idea di indagare le strategie ed i rituali dell’azionismo giovanile non è tuttavia molto lontana dall’esperimento documentato sul web dall’artista Fairey Shepard . L’invenzione di un movimento antagonista fasullo, propagandato attingendo all’iconografia politica estremista e alla memoria collettiva di tradizionali ideologie storiche, assume un valore simbolico che culmina in operazioni di diffusione e raccolta di testi e resoconti, merchandising, vendita di poster e gadget, occupazione temporanea di spazi murali pubblici.
Protagonista assoluto della fantomatica campagna di Shepard è il misconosciuto lottatore André the Giant , mostruoso e imponente golem contemporaneo creato dalla tv trash negli anni ’80.
Gli slogan invitano all’obbedienza verso questo non-personaggio, ne esaltano la fantomatica dittatura e leadership.
In entrambi i casi, Diesel e Shepard, giocano sull’ambiguità e la doppiezza,tipica dell’arte contemporanea, che mira dritto ad indagare fenomeni e situazioni della società attuale e al risveglio delle coscienze . In entrambi i casi lo strumento del paradosso è applicato secondo un meccanismo che fa corrispondere al messaggio estetico quello concettuale: il crollo delle ideologie e delle utopie, associato alla tecnocrazia, provoca il fallimento di ogni ipotesi globalizzante e rende urgente una rifondazione etica nella modernità, che si manifesta nella società attraverso il forte bisogno di appartenenza, di reazione, di riappropriazione degli spazi, di formulazione di nuovi simboli, bandiere, identità.
Arte e pubblicità corrono spesso sugli stessi binari ma, ovviamente, si prefiggono obiettivi finali divergenti. La moda, in particolare, in questi anni ha investito molto nella connivenza con l’arte contemporanea, alla ricerca di una legittimazione e di un’amplificazione della propria immagine al di là del mercato dei beni di consumo. Il marchio punta ad assottigliare le distanze dall’arte, rivendicando un preciso ruolo sociale di promozione della creatività (si pensi al Centro Armani, alla Fondazione Prada, al P.S.1 di Illy, al Premio Furla e, a proposito di Diesel, a Netmage festival ).
A luglio di quest’anno è stato inaugurato a Tokio il quarto flaghship store 55dsl, che si aggiunge a quelli già esistenti a New York, Londra e Milano. Appaiono come comuni case, comunità, centri sociali o falansteri, arredati di conseguenza con soggiorno, camera da letto, garage, tv, barbecue, ecc. I padroni di casa sono ragazzi che sembrano usciti da un video di Avril Lavigne, amanti dello skate, del surf e dello snowboard. I centri 55dsl promuovono incontri culturali ed eventi ed artistici catalizzando le più originali espressioni della street culture ; musica, graffitismo, design, stickers e tutto quanto provenga dalla più genuina espressione giovanile di matrice hip-hop ed hard core .
I 55dsl sono specie di club cui aderiscono testimonial di spicco del mondo della creatività underground e dello sport.
Ma dietro la sigla dsl non si nasconde altri che la Diesel (Di-eS-eL), epurata dalle vocali: 55dsl è una società del gruppo che dal ’99 opera in modo indipendente. Di nuovo, ciò che appare non è o, meglio, non è solo o non è del tutto. Perché in questi club si vendono capi d’abbigliamento griffati, le uniformi di questo mondo creativo catalizzato e organizzato dalla multinazionale italiana. E tra i testimonial d’eccezione chi ci ritroviamo? Guarda caso proprio quel Fairey Shepard di cui abbiamo detto sopra, che è stato tolto dall’anonimato del sottobosco della urban culture e fatto motore di questa inedita ed interessante operazione commerciale, ma la cui creatività, c’è da giurarci, è stata anche fonte d’ispirazione fondamentale dell’ultima campagna pubblicitaria di Diesel.
L’intreccio tra arte e moda diventa sempre più complesso, innescando un meccanismo di reciproche spinte che finisce per generare nuovi soggetti sociali i cui confini appaiono sempre più indistinti; il passo da creatività e cultura undergound all’economia di larga scala è ormai brevissimo: alla progressione si sostituisce la sovrapposizione, alla separazione l’accumulo, all’ordine il caos.
Antonio de Pascale è, a mio parere, un artista chiave del nostro tempo per valutare lo stato di avanzamento del dialogo tra arte e media, una storia che ha avuto in Andy Warhol e nella Pop Art un suo momento cruciale, un punto di partenza più che di arrivo.
De Pascale indaga il linguaggio della pubblicità e dei prodotti di consumo; utilizzando le stesse armi dell’individualismo che stigmatizza, ne decostruisce scientificamente gli elementi linguistici elementari e li riassembla in modo del tutto inedito. Inserendo chirurgicamente fattori di disturbo nel testo pubblicitario (a livello spaziale, testuale, grafico e dunque estetico e concettuale) il prototipo fissato nell’immaginario collettivo subisce un sovraccaricamento che provoca un corto circuito esplosivo dalla conseguenze dirompenti.
Il prodotto viene clonato, geneticamente modificato, per essere riprodotto in scale inconsuete, i loghi aziendali subiscono trasformazioni inattese, i messaggi informativi e promozionali vengono deviati e dirottati su nuovi registri.
Il ponte di Brooklin delle note chewing-gum esplode in un pacchetto ingigantito, lo stesso destino tocca al Mulino Bianco di un enorme sacchetto di biscotti; la qualità del prodotto è annullata nei caschi protettivi da operaio griffati che denunciano l’inesorabile volgarità della loro forma e la loro assoluta uguaglianza, mentre dal rassicurante volto femminile anni ’50 del dado Knorr un inatteso pugno alieno cancella finalmente il celeberrimo sorriso, riprendendo l’intenzione dissacratoria dell’icona che fece crescere i baffi alla Gioconda.
De Pascale riscatta l’arte dalla contaminazione, restituendole intatti i diritti di analisi e di sintesi, riconduce il messaggio concettuale alle legittime origini estetiche e formali, svincola la prassi artistica dalla prigionia della serialità benjaminiana operando all’insegna della riproduzione manuale dell’oggetto industriale mediante tecniche tradizionali come la pittura e scultura (tekne). Un atteggiamento certamente narcisistico ed individualistico e che però si sottrae al dominio tecnologico e mostra una via possibile per la creazione di nuovi valori etici nella contemporaneità. L’artista non nega la convivenza (né la connivenza) e però pretende il riconoscimento del ruolo e dell’individualità dell’arte. Perché l’inganno, come s’è visto, è dietro l’angolo, l’equivoco appena oltre il velo dell’apparenza, ma il motore della grande illusione rimane l’arte; una cosa per cui più di qualsiasi definizione vale forse il noto paradosso di Oscar Wilde, secondo cui “la vita imita l’arte molto più di quanto l’arte imiti la vita “.
Add’à passà ‘a nuttata (E. De Filippo)
articoli correlati
La prima parte dell’editoriale
link correlati
Il sito di Fairey Shepard
Il sito della Diesel
Il magazine on-line di 55dsl
alfredo sigolo
[exibart]
Davvero un approfondimento chiarificatore e eccellente. Da leggere d’un sorso. fi fiiiiiii