TRADIZIONI E PROSPETTIVE |

di - 3 Aprile 2008
L’invito all’Italia come ospite d’onore a Paris Photo è un segno che mi dà conferma su scala internazionale dell’effettiva necessità di fare un punto sulla fotografia italiana.
Una necessità che ho voluto mettere in primo piano nella scorsa edizione di FotoGrafia, Questione Italiana, e che ha fatto emergere correnti e identità finora rimaste in uno stato ancora piuttosto nebuloso, oltre che la mancanza di strutture che promuovano la fotografia italiana.
Da questo punto di vista, Paris Photo si pone come un buon incentivo per apportare dei cambiamenti a una situazione per cui è già possibile intravedere prospettive ottimistiche. Come direttore artistico di FotoGrafia, credo che il festival, dal canto proprio, contribuisca a questo cambiamento grazie a un ruolo produttivo di grande incisività, in una proficua interazione fra piano pubblico e privato.
Nonostante l’indeterminatezza di questa nebulosa Italia, si possono riconoscere dei nuclei significativi, un arcipelago di realtà che trova un comune bacino nel forte rapporto con la nostra tradizione storico-artistica, letteraria e nelle stesse vicende storiche del nostro paese. Potremmo in un certo senso parlare di una tradizione romana, che si lega a quell’atmosfera del dopoguerra caratterizzata da una strana e irripetibile commistione di esperienze fra cinema, arte, e giornalismo. È il momento che vede emergere figure come Pinna, Sansone, Garruba, Plinio De Martiis.
Un mondo variegato e dai molteplici stimoli che trova i suoi eredi nelle nuove generazioni di più rigorosi fotoreporter, tutti cresciuti professionalmente a Roma, ai quali mi è sembrato doveroso dedicare una mostra, Altri mondi, nell’ultimo festival.
La tradizione napoletana, di Mimmo Jodice, con quella sua attenzione dai toni spesso rarefatti e sospesi nel tempo alle nostre radici e alla memoria, di Raffaela Mariniello, Patrizio Esposito, e quella siciliana, con la sua singolare dimensione che si sviluppa dal racconto assolutamente personale, quasi privato, che fa Enzo Sellerio della sua Sicilia, a Ferdinando Scianna, all’ostinato e coraggioso impegno di Letizia Battaglia e Franco Zecchin, al fotografi più giovani come Carmelo Nicosia e Carmelo Buongiorno, che si distaccano dai loro antesignani per uno sguardo più lirico, svuotato di qualsiasi densità tragica.

La tradizione milanese, in cui si potrebbe individuare un tratto comune nel forte rigore mentale e il cui rappresentante per antonomasia è Ugo Mulas, profondo conoscitore della realtà artistica sua contemporanea e non solo. In linea con una diffusa tendenza di carattere fortemente analitico e rivolta al mezzo stesso come problema, entra, in una riflessione per immagini, in maniera esplicita “dentro la fotografia”. Ma anche Gabriele Basilico, che sottende sempre un approccio sociale nella sua lunga storia di fotografo, e le nuove generazioni che della città vivono anche quell’aspetto legato al mercato industriale e pubblicitario.
Infine la tradizione emiliana, in particolar modo quella della comunità di fotografi che si forma verso agli anni ‘80 intorno a Luigi Ghirri e che trasforma la visione del paesaggio e dei suoi cambiamenti in riflessione, una tradizione che ancora oggi trova in quell’area un vissuto diffuso della fotografia nei suoi più diversi aspetti, oltre a eredi e continuatori del calibro di Guido Guidi e Olivo Barbieri. Viaggio In Italia, che mi ha sempre affascinato anche come esperienza collettiva, mi riporta all’approccio di Ghirri nei confronti del mondo e della fotografia e al suo profondo rapporto con la scrittura, come nel connubio con Gianni Celati.
Ho vissuto anch’io questa vicinanza con la letteratura, e la collaborazione come autore con molti scrittori e poeti ha dato spesso una differente profondità e una diversa risonanza alle mie fotografie. È il motivo che mi ha spinto a chiedere a molti di loro di scrivere per FotoGrafia, penso al testo di Erri De Luca per Teatro del Tempo di Koudelka, a quello di Elisabetta Rasy sulla Roma di Graciela Iturbide, all’introduzione di Edoardo Albinati al catalogo della prima edizione, solo per citarne alcuni.
Dopo sei edizioni di FotoGrafia, il mio interesse come curatore, nato dal mio lavoro di fotografo, è sempre più rivolto a quegli autori che portano nei loro progetti le storie personali radicate nel loro territorio, o che da esso partono. Oltre a quelle tradizioni che prima citavo, ci sono alcuni altri lavori che per me rappresentano dei punti di riferimento essenziali per comprendere le origini e il futuro della fotografia italiana.

Gli anni che hanno visto Letizia Battaglia e Franco Zecchin lavorare insieme, documentando gli omicidi di mafia in Sicilia, sembrano adesso lontani un’eternità, ma il loro lavoro è ancora lì e curare insieme a Salvatore Ligios la prima mostra in Italia che dava una visione d’insieme di quanto hanno fatto è stato per me motivo di orgoglio. Il loro lavoro continua a rimanere il più grande esempio di fotogiornalismo in Italia e tra i più grandi a livello mondiale.
Il reportage continua ad essere per me uno degli aspetti più importanti della fotografia. A Tano D’Amico, che dalla fine degli anni ‘50 non smette di legare la propria professione di fotografo all’impegno politico in prima linea, abbiamo dedicato un a grande retrospettiva in occasione dei trent’anni dal 1977: la sua coerenza e la sua costanza la sua miglior dote, come ricordava in un’intervista fattagli da me lo scorso anno.
Un rapporto con la realtà mediato dalla storia è il tratto che con più forza delinea l’atteggiamento di Luca Campigotto. Tutto il suo lavoro nasce dall’amore per la storia, da Teatri di guerra al più recente lavoro sulle isole pontine, commissionato dal festival, in cui permane questo sapore di viaggio nella e attraverso la storia.
Una visione profondamente radicata al proprio humus culturale è quella di Antonio Biasucci. Se penso a Res, così terrigno e viscerale, i primi piani secchi che inquadrano gli oggetti di Ex-Voto, anche questo prodotto dal festival in collaborazione con la galleria Magazzino d’arte Moderna, hanno il sapore di una ricerca antropologica sulle nostre radici religiose: le due anime del nostro Meridione tenute sempre insieme, pur nella diversità di accenti.
Una ricerca ancor più intimista, nel parlare del nostro patrimonio collettivo, ma accorta e fortemente empatica, è quella di Paolo Ventura, tanto da trascinare lo spettatore all’interno dei suoi teatrini fatti di una quotidianità ormai perduta, ricordi di una storia sentita e restituita a una dimensione fotografica in una maniera quanto mai suggestiva.

Uno sguardo decisamente puntato oltre è quello di Paolo Woods, uno dei pochi a portare avanti lavori caratterizzati da un’impostazione giornalistica di raro rigore, coerenza e profondità, dall’Iraq e l’Afghanistan di Caos Americano alla ricerca più meditata e radicata nella realtà di tutti i giorni di Iran Felix.
Un altro esempio di reportage di insolita profondità è quello di Alex Majoli, alla ricerca di una dimensione che nell’ultimo festival romano ha preso le forme di un’installazione per certi versi più vicina alle pratiche dell’arte contemporanea. Majoli giustamente insiste a voler dire che anche Libera Me è reportage, di una forma che nella sua sedimentazione trova un respiro esperienziale, anche spazialmente.
Il rapporto con l’arte contemporanea è spesso in ambito fotografico oggetto di mistificazioni e incomprensioni. Sembra che sia più difficile per la fotografia riconoscere serenamente un rapporto con l’arte contemporanea che per l’ambiente dell’arte trovare un posto nel suo insieme anche per la fotografia, com’è risultato evidente dalla presenza di Gabriele Basilico, col suo lavoro del 1991 su Beirut alla Biennale di Venezia, e di Guy Tillim, con il suo reportage sulle prime libere elezioni in Congo a Documenta Kassel.
In un territorio come quello italiano, in ogni caso, è non solo necessario ma ormai doveroso lavorare soprattutto nei settori della produzione e promozione. Il Paese è presente a Paris Photo con sedici gallerie: un chiaro segno di sviluppo del mercato, che trova nell’editoria fotografica -un altro settore qui molto presente- un ulteriore stimolo.
È anche questa la quotidianità della fotografia che mi interessa, in un mondo che trova in Internet la sua maggiore fonte di input, come ha dimostrato l’iniziativa con repubblica.it, in cui invitavamo il lettori a dare il proprio contributo fotografico sul ’77, uno dei maggiori successi dello scorso festival.

Il fatto che ci siano forti basi per un’effettiva forma di promozione e produzione è un obiettivo su cui ho intenzione di convogliare molte energie, anzitutto rendendo quest’anno il Palazzo delle Esposizioni un grande centro non solo di fruizione di mostre, ma di scambio a tutti i livelli, da workshop a letture di portfolio a riflessioni sulla condizione attuale della fotografia in Italia, in una più ampia prospettiva fa parte di questa visione progettuale anche il futuro Museo della Fotografia di Roma che, oltre a ospitare la collezione cresciuta in questi anni, si pone l’obiettivo di diventare un grande centro di formazione e produzione, in una dialettica costruttiva fra breve, medio e lungo periodo.

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marco delogu


*articolo pubblicato in traduzione francese su Exibart.photo

[exibart]

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