Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
17
marzo 2018
Trap e denaro: una relazione incontaminata
Politica e opinioni
Viaggio nel più “nuovo” dei generi musicali che ricalca stereotipi parecchio vecchi: soldi, donne e droghe. Vi urta? Peggio per voi, perché dovete farci un paio di conti
«Soldi – tanti soldi – proprio un sacco di soldi – uh uh – è tutto quello che voglio – woah yeah – dammi dei soldi…».
Triste vero? Sì, è un testo che fa pena, come negarlo. In più la musica sulla quale era appiccicato era una mezza scopiazzatura di What I’d Say di Ray Charles. E invece non solo Money (That’s What I Want) cantata da Barrett Strong fu il primo vero successo della gloriosa Motown, ma venne ripresa nel 1963 dai Beatles, quando John Lennon non era ancora in palla Working Class Hero, e da un sacco di altra gente. Va detto che quando si trattava di parlare di pecunia, i quattro non si tiravano indietro, da Taxman a You Never Give Me Your Money, stavano sempre all’erta sull’argomento, che restava pur sempre materia deprimente.
La santissima trinità del sublime era sesso-sostanze psicoattive-musica, quella dei soldi costituiva una sorta di intrusione, più un ostacolo al raggiungimento dell’estasi che pratico veicolo, utile a recarsi rapidamente presso le sue porte. E poi finalmente arrivarono i Pink Floyd (Money, 1973) a pronunciare una sentenza senza appello: i soldi sono bullshit, munnezza, schifezza. Ma nessuna parola è definitiva, soprattutto se entra in gioco un’altra comunità che cambia le carte in tavola. Per i discendenti della forza lavoro coatta, traslati controvoglia dal continente nero nel nuovo mondo, il denaro poteva rappresentare l’evidenza di una ricollocazione nell’impianto sociale – “non siamo più schiavi!” – e quindi la sua ostentazione. Nel mondo dell’hip hop, i vestiti, le automobili, l’esibizione dell’oro, assumono nel corso degli anni ’80 un rilievo imbarazzante. Solo a titolo di esempio, nel 1987 viene pubblicato un disco di Eric B & Rakim che fa ormai parte della storia del rap, intitolato Paid in Full, a segnare una ferma risoluzione sulla gestione economica della propria musica, dove i due sono ritratti in copertina con catene e ciondoli d’oro dalle dimensioni incresciose.
Dark Polo Gang + Sfera Ebbasta, Cavallini
Quella che a noi europei pareva una buzzurrata dal respiro corto, divenne negli anni a seguire una caratteristica stabile di tutto un settore della nuova musica afroamericana che, tra alti e bassi, è diventata una delle colonne sonore portanti del nostro universo simbolico. Mai avremmo avuto l’ardire di ipotizzare che quell’impresentabile estetica riuscisse a colonizzare l’immaginario dei giovani europei. Eravamo concentrati su Public Enemy, Boogie Down Production e il movimento delle posse nei centri sociali e non potevamo sapere che dopo, molto dopo, arrivava la Trap. Nata come branca specifica dell’hip hop del sud degli Usa (Atlanta, in particolare) insiste ossessivamente su una serie di caratteristiche già ampiamente utilizzate, sia dal punto di vista dei contenuti musicali, in sintonia con l’evoluzione tecnologica, quanto da quello dei testi, adeguati alle trasformazioni sociali. Il riferimento al prestigio acquisito tramite il denaro deriva verso un’ode perpetua al soldo in sé, con un effetto straniante. Abituati a un’immensa tolleranza verso i testi in idiomi foresti, una volta divenuti comprensibili i contenuti si fanno problematici.
Charlie Charles e Sfera Ebbasta
Quello che è probabilmente il gruppo di trap italiana più rappresentativo, la Dark Polo Gang, sembra essere l’esatto contrario dei progetti da laboratorio ai quali si accennava in precedenza (Babymetal, Liberato). Frutto invece di un’autorganizzazione spontanea, fuori dal mercato discografico classico e, ciononostante, capace di imporsi al pubblico, la DPG dipinge con paradossale sincerità e lampante scorrettezza i riferimenti della gioventù benestante romana alla quale appartengono i suoi componenti. I riferimenti ai soldi e al vestiario costoso sono, per chi non sia avvezzo alla crucialità dell’argomento, a dir poco asfissianti, nella poetica quanto nell’immagine. Per chi desideri un’esperienza audiovisiva limitata ma efficace consiglio la visione di Cavallini (con Sfera Ebbasta) in una sorprendente mistura tra apologia del lusso sfrenato e un’ambientazione da tinello proletario semiperiferico. Lo trovate orrendo? Ma anche i Rolling Stones erano rivoltanti per i trentenni del tempo. Musicalmente inconsistente? Sappiate che si diceva lo stesso di punk e new-wave. I testi sono trivialmente ossequiosi verso i peggiori valori dominanti? Può darsi ma, visto il notevole interesse che una bella fetta di adolescenti nutre per i loro brani, forse va riconosciuto che lo specchio dei tempi sono loro, i trappers, molto più dei narratori colti alla Murubutu. In queste composizioni ciò che una volta fu un mezzo per procurarsi beni materiali e status si trasforma in obiettivo puro e incontaminato. Soldi, in primo luogo e dopo vestiti, droga, troie. Troie? Esatto, troie. Ma di questo casomai un’altra volta.
Giuseppe Aiello