UBIQUITÀ: ARTE E CRITICA D’ARTE NELL’EPOCA DELL’INFORMAZIONE GLOBALE

di - 23 Febbraio 2011
Le opere acquisteranno una
sorta di ubiquità

Paul Valéry

L’inclinazione umana a “istantaneizzare” i rapporti
interpersonali ha prodotto una vera e propria metamorfosi dei valori temporali
e spaziali facilitando non solo un’evoluzione
(e in alcuni casi un’involuzione)
culturale di stampo ubiquitario, ma
anche l’assimilazione e l’accesso a materiali e a informazioni difficilmente
raggiungibili o accessibili al pubblico. Se da una parte il possesso ha lasciato il posto all’accesso (creando, a volte, un eccesso di pseudoeventi) – è la nota analisi proposta da Jeremy Rifkin [1] – e
ha agevolato la perlustrazione di materiali inconsultabili, dall’altra si è
realizzata quella particolare e invero rara
(anche se fino a qualche decennio addietro si sarebbe definita miracolosa) capacità
di trovarsi in più luoghi nello stesso momento. In altre parole, la società
contemporanea, tra miracoli e traumi
della comunicazione
(Mario Perniola), ha acquisito una struttura ubiqua che
non solo permette una straordinaria velocità della comunicazione
socio-culturale e semplifica notevolmente l’economia internazionale, ma determina,
d’altro canto, anche ottundimenti cronoestesici
provocati dalla perdita di importanti e utili intervalli fisiologici.

Dopo alcune fasi di moltiplicazione e automatizzazione
dell’opera, dopo i vari stadi di dura propagazione dei mezzi di comunicazione
(dopo il satellitare, Skype, Youtube, il videotelefono, il network, gli avatar
e i vari processori che elaborano dati in tempo reale), si è andata
configurando una nuova forma di vita culturale che ubiquizza l’umano nel nome
di un palpitante e martellante presente. Insomma, l’epoca attuale,
massicciamente condizionata da un sistema di base ubiquizzante e, a volte, perniciosamente omologante, trova nell’immediatismo e nel presentismo [2], ovvero in una velocità di scambio socio-economico
nonché nel desiderio disperato di una vertiginosa onnipresenza, alcune basi
culturali alle quali il sistema dell’arte si è adattato e rimodellato per
rispondere con contraccolpi creativo-riflessivi efficaci e precisi.


Difatti l’artista assume, oggi, nei confronti della
comunicazione, un nuovo atteggiamento investigativo. Da un punto di vista
metodologico, sposta i procedimenti interpretativi dal piano dell’espressione a
quello dell’azione, impegnandosi in un discorso aperto alla costruzione di
processi interattivi che sottolineano uno sfilacciamento della dimensione
temporale e spaziale e una revisione del rapporto opera-pubblico.

Legati da uno stesso filo estetico di natura
emozionale, relazionale, interattiva o neodimensionale
(Giuseppe Stampone), questi artisti
trasformano il network in materiale e
tecnica dell’arte per elaborare un’opera in grado di distribuire la realtà sensibile a domicilio (Valéry) e
dialogare con un pubblico virtuale di marcato stampo globale.

Se inizialmente, con Robert Adrian, Roy Ascott, Bill Bartlett, Carl Loeffler, Fred Forest
e altri (e si pensi anche alle linee mentali adottate da Gino De Dominicis), l’artista interroga i nuovi scenari
formulando ipotesi e questioni metodologiche per indagare gli strumenti di
diffusione sociale, lo scenario attuale mira a trasformare la comunicazione in
immaginazione, in frontiera fantastica attraverso la quale costruire opere in
grado di relazionarsi, realizzarsi e rigenerarsi in realtime.


Sculpting in Air / Video
Planets (2010) di Katja Loher, un circuito aperto che
osserva lo spettatore e lo trasporta sul web, Southern Ocean Studies (2009-10),
lavoro in cui Corby, Baily & Mackenzie metamorfosano alcuni dati relativi
alle maree e al vento per dar vita a un corpo visivo pulsante e leggero o L’insostenibile calma del vento (2010)
di Bianco-Valente, opera con cui il
duo ha generato un meccanismo uditivo grazie all’acquisizione di alcune frequenze tradotte in suoni per dar vita
a una espressione del vento che
racconta le sue avventure. Sono soltanto alcuni esempi di una procedura
artistica che incrina i meccanismi del software
e dell’hardware di turno a
un’indagine che sposta l’ago riflessivo verso formule artistiche che non solo
evidenziano una continua alterità nei confronti della realtà, ma si
radicalizzano finanche nel (e sul) reale per trovare il primus movens di una progettualità sempre più visceralmente legata
all’interazione ubiquitaria.

Tuttavia, se da una parte la diffusione (e la misura)
ubiquitaria dell’arte dà luogo a forti innovazioni e crea nuove formule
creative stuzzicando la fantasia e la riflessione dell’artista, dall’altra
quello stesso senso ubiquitario può provocare spiacevoli conseguenze
nell’elaborazione di un processo riflessivo sull’arte e di un apparato curatoriale
che ha facoltà di accogliere e relazionare opere differenti secondo esigenze e
criteri allestitivi legati allo spazio e ad una esibizione artistica d’insieme.


Così, se da una parte sono accettabili – anzi,
decisamente accettate – la perdita dell’unicità e l’apertura dell’opera a un
discorso di natura ubiquitaria e post-auratica, dall’altra questo tipo di
trasformazione si presenta davvero nocivo per la critica e per certa curatela
che naufraga, spesso, in un marasma comunicativo teso ad elogiare lo spettacolo
e a dissolvere i contenuti della memoria e dell’immaginazione in propaganda, sputo e spot pubblicitario.

[1] Cfr. J. Rifkin, L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori,
Milano 2000

[2] F. Hartog, Regimi
di storicità. Presentismo e esperienze del tempo
, Sellerio, Palermo 2007

antonello tolve


*articolo pubblicato su
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@https://twitter.com/antonellotolve?lang=it

Nato a Melfi nel 1977, è critico d’arte e curatore indipendente, e docente presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata. Ha conseguito il Ph.D all’Università di Salerno ed è stato visiting professor in diverse università. Tra i suoi libri ABOrigine (2012), Esposizione dell’esposizione (2013), Ubiquità (2013) e La linea socratica dell’arte contemporanea (2016).

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