UN SACCO BELLO

di - 10 Ottobre 2010
Molto si potrebbe dire, e molto è stato già detto, anche
da chi scrive, su quanto questo automatismo punitivo si fondi su un’idea di
cultura anacronistica e tradisca un atteggiamento pericolosamente miope (anche
se ciò non implica che i momenti di crisi non possano essere un’ottima opportunità
per razionalizzare la spesa pubblica in ambito culturale in base a criteri di
efficacia e di qualità).

Ma c’è un punto su cui invece evidentemente non ci si
sofferma abbastanza, visto che se ne discute molto, troppo poco. C’è una forma
di produzione culturale che sembra sostanzialmente immune dai tagli: la
televisione, della quale si può discutere molto ma certo non si può dubitare
del suo status, appunto, di industria culturale, né la sua ampia disponibilità
di risorse pubbliche.

La televisione gode del privilegio di disporre di una
tassa apposita (il canone radiotelevisivo), che non le impedisce peraltro di
approvvigionarsi ulteriormente sul mercato pubblicitario. La televisione, anche
in questi tempi di crisi, continua pertanto a disporre di una quantità enorme
di mezzi finanziari, spesso utilizzati in modo palesemente inefficiente. Il
mercato delle professionalità televisive ha operato finora in condizioni di
assoluta opacità informativa. Rispetto ad altri settori nei quali si opera
spesso ad alti livelli qualitativi, misurati secondo standard internazionali,
mettendo a frutto ogni centesimo di finanziamento disponibile, sembrerebbe
quindi che in un periodo di crisi i tagli non possano che iniziare dalla
televisione, vista la condizione di assoluto privilegio nella quale opera, non
sempre supportata da una comparabile eccellenza qualitativa, secondo qualunque
standard la si voglia valutare.


E invece, guarda un po’, quando si ventila la
possibilità di tagli ai ricchissimi budget televisivi c’è un vero e proprio
affollamento di avvocati difensori che cominciano subito a tirare in ballo la
professionalità, le leggi del mercato (quali, di grazia?) e altre simili
amenità assortite.

Perché argomentazioni del genere non vengono mai messe in
campo quando si parla di tagli ad altri settori culturali? Perché in questi
casi le voci che si levano – e spesso sono le stesse di coloro che fanno gli
avvocati difensori d’ufficio della professionalità televisiva, e che ora
preferiscono giocare a fare i pubblici ministeri – improvvisamente non danno
alla professionalità più alcun peso e non perdono occasione per accusare la
cultura “altra” di peccati imperdonabili quali la supposta elitarietà, la
supposta lontananza dalla “gente” e altre simili amenità assortite?


Ma l’Italia
non è la terra dei festival in cui si riescono a riempire le piazze con la
filosofia, con la letteratura, con le scienze cognitive, e con mille altre
forme di cultura suppostamente elitaria, sorprendendo a volte persino gli
osservatori provenienti da paesi nei quali la pratica dell’accesso culturale è
molto più socialmente riconosciuta che da noi? E allora perché tanto
accanimento in un caso, e tanta sconcertante compiacenza nell’altro? Già,
perché?

Per citare un noto intellettuale televisivo: si faccia una domanda, si
dia una risposta.

pier luigi sacco

pro-rettore alla
comunicazione e all’editoria e direttore del dipartimento delle arti e del
disegno industriale – università iuav – venezia


*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 67. Te l’eri perso?
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Visualizza commenti

  • E si stupisce? Tutte le arti sono state concepite per educare i popoli. La televisione, invece, è stata inventata per RINCOGLIONIRE i popoli. Secondo lei dove conviene investire?

  • Mi sono occupata in passato di "Titoli" spazzatura con 1 collettiva d'arte contemporanea. Sarebbe il caso di parlare di televisione spazzatura. Temo pero' che ci sia ben poco da reciclare.

    Amy d arte spazio x "Titoli"08

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