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31
dicembre 2017
Una classifica ai tempi del “binge watching”
Politica e opinioni
Quali sono le tre serie TV migliori del 2017? Twin Peaks, The Leftover e la settima American Horror Story. Ecco i perché, mischiando discorso artistico-culturale e grande mercato
Nel suo L’espulsione dell’altro Byung-Chul Han scrive che oggi il “binge watching” (ovvero la visione di contenuti video e di film senza alcuna limitazione temporale attraverso i vari servizi di streaming) può essere considerato il sistema di percezione più comune. «Ci si ingozza fino allo stordimento» afferma il filosofo di origini coreane.
Ed effettivamente il 2017 che si sta per concludere ha visto il crescente proliferare di prodotti televisivi o cinematografici on demand gestiti dalle varie piattaforme di visione e proposti al pubblico a seconda del suo gusto rigorosamente calcolato da logaritmi. Il successo di molte serie TV è stato automaticamente amplificato dal passaparola sui social network e dai vari dibattiti scaturiti dalle tante visioni. Ne sono due esempi tra loro molto diversi l’odiato e amato teen drama 13 – Thirteen Reason Why o il nostalgico Stranger Things, due serie capaci di riportare in maniera diversa intere schiere d’adulti nel limbo (eterno) dell’adolescenza. Parliamo di intrattenimento, certo. Eppure proprio all’interno di questo proliferare al limite del compulsivo il linguaggio filmico e autoriale assume nuove forme e le serie TV si affermano anche come linguaggio artistico tout court rincorrendo nuove dinamiche e tempi per la narrazione, plasmando e imponendo nuovi immaginari, dilatando visioni in un tempo meno performativo di quello della contemporaneità, utilizzando a proprio favore l’incomprensibilità e talvolta la noia, costruendo discorsi politici, giocando con il gusto del grande pubblico e trovando il giusto compromesso tra discorso artistico e grande mercato culturale.
Questa classifica raccoglie 3 delle serie tv che durante il 2017, si sono scostate dai consueti canoni di gusto dei prodotti per l’intrattenimento, rimettendo in gioco la stessa definizione di serialità televisiva o, semplicemente, le regole dei generi a cui si fa riferimento.
Twin Peaks 2017
1. TWIN PEAKS – THE RETURN (SHOWTIME)
Maestro dell’altrove per antonomasia, David Lynch aveva già affermato attraverso le prime due stagioni di Twin Peaks firmate insieme a Mark Frost, la possibilità di realizzare un discorso filmico complesso attraverso il mezzo televisivo, coniugando, forse per la prima volta, cinema indipendente e serialità. Le vicende della scomparsa di Laura Palmer (se così è possibile sintetizzare il telefilm), le musiche di Angelo Badalamenti, i paesaggi reali e immaginari della provincia americana avevano ipnotizzato gli spettatori degli anni Novanta per poi lasciarli con il fiato sospeso. «Ci rivedremo tra 25 anni» aveva affermato, proprio all’interno della celebre stanza rossa della Loggia Nera, la stessa Palmer al fascinoso agente Cooper. I 25 anni sono passati e David Lynch ha mantenuto la sua promessa. Ed è proprio da questa distanza temporale che il regista riparte per ri-materializzare un “altrove” capace di fuggire qualsiasi comprensione segnica per brillare della propria enigmatica energia. Abbandonato il piglio narrativo ed emotivo delle prime due stagioni, e forte della lezione di Inland Empire, Lynch porta il suo Twin Peaks in territori più aleatori e algidi in cui tutti i protagonisti appaiono come figure sfocate dal tempo, ancora rinchiuse nelle loro micro-bolle narrative, nei loro micro-universi di senso, congelati nella percezione dello spettatore. È quasi una riflessione sulla memoria (sottesa ad ogni grande ritorno), quella costruita dal cineasta americano: un flusso cinematografico suddiviso in 18 capitoli in cui elementi familiari appaiono gradualmente ricomponendo l’immagine di un mondo che appartiene al nostro immaginario e che pure è per sempre cambiato. Come non lasciarsi incatenare dal riaffiorare di volti invecchiati riflessi, per volontà o per caso, negli sguardi più giovani dei nuovi avventori del Roadhouse? Da questo fitto intreccio di storie di bene e di male in cui si trascina un autistico agente Cooper? E come non vibrare di nostalgia dinanzi alle sue calde tazze di caffè o alla golose Cherry Pie? «Signore e signori, il ballo di Audrey» sentiamo dire all’interno del Roadhouse mentre, improvvisamente, la musica ci riporta alle emozioni del passato e ci mostra come il tempo sia solo una questione di prospettiva. Come tutto il linguaggio cinematografico del resto, che ora Lynch reinventa sapientemente attraverso l’utilizzo del serial televisivo (non a caso Cahiers du cinéma ha nominato Twin Peaks – The Return miglior film del 2017). Così eccoci qui, 25 anni dopo, ancora una volta a discutere di cosa sia il cinema e di cosa non lo sia, di cosa debba o non debba essere una serie tv, o semplicemente ad abbandonarci ad un labirinto di visioni e sensazioni per farci suggerire all’orecchio, da una ritrovata Laura Palmer, nuovi inesplorati finali.
The Leftovers
2. THE LEFTOVERS (HBO)
Iniziata tre anni fa e conclusasi quest’anno con la sua ultima stagione, The Leftovers riprende la lezione lynchiana, spostando la dimensione metafisica di Twin Peaks su un piano più metaforico e simbolico. Se Lynch sembra sempre fuggire ogni forma esplicita di simbolismo, ad esso si affidano completamente Damon Laurence Lindelof (già co-creatore, produttore e sceneggiatore di Lost) e Tom Perrotta (scrittore e sceneggiatore statunitense, creatore dell’omonimo libro da cui è tratta la serie). Poco fortunato sul piano degli ascolti e degli incassi, The Leftovers ha mostrato nelle sue tre stagioni, cosa può essere una grande narrazione oggi. Siamo questa volta a Mapleton, tre anni dopo l’improvvisa scomparsa del 2% della popolazione mondiale, a seguire le vicende di una comunità sotto shock che allieva il proprio dolore attraverso nuove mistiche, estremismi religiosi o cieca razionalità. Quasi sull’orma di una ideale trilogia dantesca Lindelof e Perrotta costruiscono un percorso in crescendo che trova proprio in quest’ultimo capitolo il suo apice compositivo. Qui le carte in tavola vengono completamente ribaltate e quell’inferno che ci era stato presentato nella prima stagione attraverso le storie dei singoli personaggi, quel purgatorio in cui ci eravamo trovati a vagare nella seconda stagione un po’ smarriti e privi di guide, diviene infine un vero e proprio inno d’amore all’umanità tutta e alle sue fragilità. Perché nel suo girovagare su se stesso, nel suo sapiente intreccio narrativo, nella sua folgorante capacità di attraversare in maniera originale generi e atmosfere, The Leftovers ci parla dei vivi e dei morti, di chi è andato via ma soprattutto di chi è rimasto, della necessità di fede, del bisogno di odio e d’amore, della necessità di conflitto che sta all’interno di tutte le più piccole storie.
Il modo in cui Lindelof e Perrotta gestiscono citazioni e simbolismo conducendoci per mano in un universo visionario ma solo per lasciarci crollare inermi sulla più dura realtà, rende questa serie un piccolo capolavoro candidandola già ai grandi classici della contemporaneità.
American Horror Story: Cult
3. AMERICAN HORROR STORY 7 – CULT (FX)
Dopo quattro stagioni stucchevoli sia sul piano narrativo che su quello estetico, e dopo essersi lasciati alla spalle una ormai ingombrante Jessica Lange e una poco credibile Lady Gaga, la celebre serie firmata da Ryan Murphy e Brad Falchuk torna con una stagione sorprendente e (si potrebbe dire) necessaria. Se American Horror Story ha sempre colpito per il sapiente utilizzo dei canoni e dell’immaginario horror americano, per questo suo settimo appuntamento Murphy e Falchuk alzano di molto la posta in gioco. Non ci sono spettri, clown assassini, vampiri o streghe in Cult (questo il titolo della recente stagione presentata in italia su FOX) ma solo umani manipolati da altri umani. Perché questa storia non inizia con urla di terrore o teste mozzate, ma con la vittoria di Donald Trump alle recentissime elezioni americane; non affonda le sue radici nei grandi classici dell’orrore, ma nei movimenti sessantottini e poi nella nascita del fenomeno dei serial killer americani capitaneggiati dalla figura ormai leggendaria di Charlie Manson. Ne nasce una narrazione intensa, crudele e perversa – quasi paragonabile per intenzione e potenza a Le Particelle elementari dello scrittore Michel Houellebecq – che mostra il DNA di una nazione e di un mondo continuamente agito dalla paura e dalla sua necessità, dal terrore e dalla sua strumentalizzazione, dalla follia e dalla sua razionalità.
Uno dei ritratti ad oggi più convincenti dell’America post Barack Obama e uno dei più riusciti esempi di come si possa incontrare il gusto del grande pubblico ed utilizzare i linguaggi “pop” non rinunciando alla complessità.
Matteo Antonaci