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03
ottobre 2008
UNA GIORNATA DA ARTICOLARE
Politica e opinioni
Àmaci. È l’appello che, per il quarto anno, l’associazione dei musei d’arte contemporanea rivolge ai visitatori. Un sabato nel villaggio. Dove i problemi non mancano e un giorno dura solo 24 ore. Ecco perché ci si deve aspettare molto, molto di più dall'associazione italiana dei musei d'arte contemporanea...
di Anita Pepe
Innanzitutto perché. Perché una Giornata del Contemporaneo. E perché ancora una Giornata del Contemporaneo, senza sapere come sono andate le precedenti e le rimanenti 364 o giù di lì. Come se un’impellente, ibrida, tracimante creatività già non impregnasse ogni angolo, ogni poro, ogni anfratto del presente, dalla tazzina d’artista al bar dell’archistar. Una penetrazione esplicita o implicita, discreta o invadente. Talvolta fuorviante, controproducente. In ogni caso capillare, al punto da smarrirsi nella passiva integrazione d’una digestione inconsapevole.
È che oggi tutto scorre veloce. Come i visitatori davanti ai musei “dedicati”. E, se è vero che quest’anno le adesioni all’iniziativa promossa dall’Amaci sono aumentate, è vero anche che l’ultima parola spetta al pubblico sovrano. E finora le cifre parlano chiaro, e duro: l’antico e il moderno stracciano il contemporaneo. Sbanca sì la Biennale delle Biennali, quella di Venezia (che nel 2007 ha registrato un notevole incremento), però la mostra di Correggio, subito dopo l’inaugurazione (due settimane fa), solo con le prenotazioni toccava già quota centomila.
Dunque, dov’è il problema? Perché il problema evidentemente esiste, se c’è ancora bisogno di una Giornata particolare manco fosse la Festa della Donna. E il problema sono, in primis, i musei semideserti (e c’è perfino chi fa salire la conta degli ingressi staccando biglietti agli opening) e idem le gallerie dopo i vernissage. In quanto al turismo, si sfida ad affermare che l’arte contemporanea costituisce una voce determinante per il comparto. Anacronistico lagnarsi dei proverbiali venti secoli di storia, che opprimerebbero il Paese anziché inorgoglirlo. Scontato accusare la scuola, capro espiatorio dello sfascio nazionale: provateci voi, con una striminzita oretta (o due) alla settimana, ad arrivare a Rothko partendo dal Paleolitico. Sorpassato l’alibi del “tanto non ci capisco niente” (o del “questo lo so fare anche io”), visto il training visivo cui, volenti o nolenti, siamo stati sottoposti in questi anni.
Allora perché tanta disaffezione? Sicuramente, per rubare l’espressione a un barbuto filosofo di moda qualche tempo fa, l’arte contemporanea attraversa una crisi ciclica di sovrapproduzione. Non si capisce più dove e quale sia, l’arte. O forse, semplicemente, tutta quest’“arte” ha stufato (se non indignato), grazie al bailamme di quotazioni gonfiate, critici retori, curatori esaltati, giornalisti appiattiti, uffici stampa aggressivi, artisti dopati, direttori fantasma, consulenti strapagati, investiture ai soliti amichetti, cantieri snervanti, collezionisti fantastiliardari, mostre-monstre e rendiconti bizantini. Tutto in un brodo unticcio di spiazzante autoreferenzialità.
E poi fiere e biennali, notti bianche e giornate nere, museini e fondazioncelle, “spazzzi” che spuntano (e spariscono) ovunque. Riciclaggio, e tanto. In più, un mercato in affanno che pretende continuamente l’invenzione della pietra filosofale, dove l’ansia da prestazione si mischia a quella da globalizzazione, perché più s’allargano i confini più le fettine di torta s’assottigliano. Senza contare un pervicace settarismo (quante facce nuove si notano alle inaugurazioni?), che atterrisce i neofiti sacrificando a priori i concetti di “bello” e “brutto” sull’altero altare dell’intellettualismo. Stando così le cose, è chiaro che una sola Giornata non basta.
Dunque, perché l’Amaci, anziché limitarsi a organizzare (e neppure con tanto battage, e neppure scremando dal programma appuntamenti di dubbio rilievo, ed è davvero un eufemismo) uno struscio episodico, non cerca d’imporsi come interlocutore sistematico, attivo e incisivo nei cosiddetti organi di competenza, che spesso tali non sono? Nel contemporaneo, infatti, tutti, dal pittore affermato all’assessore di paese, si sentono in diritto di mettere bocca, ma pochi ci capiscono realmente qualcosa. Sicché il sistema è allo sbando, soprattutto a livello normativo. Un vuoto sul quale cercò – e ora ci riprova – d’intervenire la cosiddetta “legge Carra”, legge dall’iter alquanto tormentato che proponeva, per adeguarsi agli standard europei, di mettere un po’ d’ordine in fatto di aliquote iva, contributi, cessioni e donazioni, agevolazioni fiscali, mirando inoltre all’emersione del sommerso (a proposito: quanti sono gli assistenti di galleria regolarmente assunti? Quante le gallerie camuffate da associazioni culturali, magari non per colpa loro ma di una fiscalità penalizzante?).
E invece, pur esistendo dal 2003, l’Amaci non ha sollecitato né proposto nuovi disegni di legge; non ha alzato la voce, mediaticamente e politicamente, contro le minacce di chiusura piombate su istituzioni come Palazzo Forti a Verona (che pure è tra gli affiliati) o Villa Manin; non è uscita sui giornali con dichiarazioni sulle crisi del Pecci, della Papesse (oggi per fortuna semi-superate) e ora del Macro; non ha investito nella formazione (avete idea di quanto costi un master per giovani curatori?); non ha fatto sentire la sua pressione su ministri, sottosegretari, commissioni, sottocommissioni. In una parola, non è riuscita a trasformarsi in una di quelle lobby che, pragmaticamente e senza inutili moralismi, cercano di portarsi a casa un risultato buono per sé e un pochino pure per gli altri. E questo, sia ben chiaro, è detto trascendendo dalla figura autorevolissima, tostissima e incontrovertibile della presidentessa Gabriella Belli. L’Amaci soffre di un nanismo che le impedisce non solo di pensare il sistema come tale, ma anche di riuscire a raccontarlo a dovere ai referenti del palazzo (si è pensato o non si è pensato che il principale interlocutore deve essere Maria Vittoria Brambilla e non Sandro Bondi?). La montagna – perché l’idea di mettere insieme tutti i musei aveva e ha una portata massiccia e impattante – ha per ora partorito il topolino, ed è il caso di dircelo chiaro.
Ed altrettanto chiaro è, concludendo, come una sola Giornata non possa bastare. Soprattutto in un piccolo mondo geloso che alla giornata ci vive e, quasi quasi, ne sembra perfino contento.
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Dunque, dov’è il problema? Perché il problema evidentemente esiste, se c’è ancora bisogno di una Giornata particolare manco fosse la Festa della Donna. E il problema sono, in primis, i musei semideserti (e c’è perfino chi fa salire la conta degli ingressi staccando biglietti agli opening) e idem le gallerie dopo i vernissage. In quanto al turismo, si sfida ad affermare che l’arte contemporanea costituisce una voce determinante per il comparto. Anacronistico lagnarsi dei proverbiali venti secoli di storia, che opprimerebbero il Paese anziché inorgoglirlo. Scontato accusare la scuola, capro espiatorio dello sfascio nazionale: provateci voi, con una striminzita oretta (o due) alla settimana, ad arrivare a Rothko partendo dal Paleolitico. Sorpassato l’alibi del “tanto non ci capisco niente” (o del “questo lo so fare anche io”), visto il training visivo cui, volenti o nolenti, siamo stati sottoposti in questi anni.
Allora perché tanta disaffezione? Sicuramente, per rubare l’espressione a un barbuto filosofo di moda qualche tempo fa, l’arte contemporanea attraversa una crisi ciclica di sovrapproduzione. Non si capisce più dove e quale sia, l’arte. O forse, semplicemente, tutta quest’“arte” ha stufato (se non indignato), grazie al bailamme di quotazioni gonfiate, critici retori, curatori esaltati, giornalisti appiattiti, uffici stampa aggressivi, artisti dopati, direttori fantasma, consulenti strapagati, investiture ai soliti amichetti, cantieri snervanti, collezionisti fantastiliardari, mostre-monstre e rendiconti bizantini. Tutto in un brodo unticcio di spiazzante autoreferenzialità.
E poi fiere e biennali, notti bianche e giornate nere, museini e fondazioncelle, “spazzzi” che spuntano (e spariscono) ovunque. Riciclaggio, e tanto. In più, un mercato in affanno che pretende continuamente l’invenzione della pietra filosofale, dove l’ansia da prestazione si mischia a quella da globalizzazione, perché più s’allargano i confini più le fettine di torta s’assottigliano. Senza contare un pervicace settarismo (quante facce nuove si notano alle inaugurazioni?), che atterrisce i neofiti sacrificando a priori i concetti di “bello” e “brutto” sull’altero altare dell’intellettualismo. Stando così le cose, è chiaro che una sola Giornata non basta.
Dunque, perché l’Amaci, anziché limitarsi a organizzare (e neppure con tanto battage, e neppure scremando dal programma appuntamenti di dubbio rilievo, ed è davvero un eufemismo) uno struscio episodico, non cerca d’imporsi come interlocutore sistematico, attivo e incisivo nei cosiddetti organi di competenza, che spesso tali non sono? Nel contemporaneo, infatti, tutti, dal pittore affermato all’assessore di paese, si sentono in diritto di mettere bocca, ma pochi ci capiscono realmente qualcosa. Sicché il sistema è allo sbando, soprattutto a livello normativo. Un vuoto sul quale cercò – e ora ci riprova – d’intervenire la cosiddetta “legge Carra”, legge dall’iter alquanto tormentato che proponeva, per adeguarsi agli standard europei, di mettere un po’ d’ordine in fatto di aliquote iva, contributi, cessioni e donazioni, agevolazioni fiscali, mirando inoltre all’emersione del sommerso (a proposito: quanti sono gli assistenti di galleria regolarmente assunti? Quante le gallerie camuffate da associazioni culturali, magari non per colpa loro ma di una fiscalità penalizzante?).
E invece, pur esistendo dal 2003, l’Amaci non ha sollecitato né proposto nuovi disegni di legge; non ha alzato la voce, mediaticamente e politicamente, contro le minacce di chiusura piombate su istituzioni come Palazzo Forti a Verona (che pure è tra gli affiliati) o Villa Manin; non è uscita sui giornali con dichiarazioni sulle crisi del Pecci, della Papesse (oggi per fortuna semi-superate) e ora del Macro; non ha investito nella formazione (avete idea di quanto costi un master per giovani curatori?); non ha fatto sentire la sua pressione su ministri, sottosegretari, commissioni, sottocommissioni. In una parola, non è riuscita a trasformarsi in una di quelle lobby che, pragmaticamente e senza inutili moralismi, cercano di portarsi a casa un risultato buono per sé e un pochino pure per gli altri. E questo, sia ben chiaro, è detto trascendendo dalla figura autorevolissima, tostissima e incontrovertibile della presidentessa Gabriella Belli. L’Amaci soffre di un nanismo che le impedisce non solo di pensare il sistema come tale, ma anche di riuscire a raccontarlo a dovere ai referenti del palazzo (si è pensato o non si è pensato che il principale interlocutore deve essere Maria Vittoria Brambilla e non Sandro Bondi?). La montagna – perché l’idea di mettere insieme tutti i musei aveva e ha una portata massiccia e impattante – ha per ora partorito il topolino, ed è il caso di dircelo chiaro.
Ed altrettanto chiaro è, concludendo, come una sola Giornata non possa bastare. Soprattutto in un piccolo mondo geloso che alla giornata ci vive e, quasi quasi, ne sembra perfino contento.
Amaci ancora…
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Gli eventi di sabato sul sito dell’Amaci
anita pepe
[exibart]
Sigh!
Tostissima Anita, come sempre.
Articolo ben fatto è coraggioso. Concordo ; l’AMACI è l’ennesima struttura autoreferenziale e settaria, al di là dell’apparente ecumenismo, del sistema dell’arte italiana, la solita compagnia di giro che si protegge chiudendosi a riccio.E, tornando alle nomine veneziane del Padiglione Italia,queste rappresentano il rovescio della medaglia, in negativo, del solito sistema. Vengono ancora tagliate fuori le realtà ed i singoli dotati di storia e di onestà professionale
Detto questo, manca totalmente l’appoggio da parte della stampa, oggi sul Corriere Della Sera neanche una riga…il che mi sembra abbastanza tragico
Finalmente, e dove se non su Exibart, esce tutto, ma veramente tutto quello che andava detto sull’Amaci. Buona idea trasformata in carrozzone inutile e autoreferenziale. Ora si attende una risposta dai vertici dell’associazione……
bene, brava, bis!
spero arrivino risposte…
E’ vero, Musei, fondazioni, gallerie, spazi espositivi, sono tutte “S.A.S.” ovvero “strutture autoreferenziali e settarie”
ma è la logica di un ambiente, quello dell’arte, che per antonomasia è espressione di pochi per “molti”
Che siano pubbliche, private o “parastatali” è ovvio che ogni struttura viva delle proprie scelte antidemocratiche e giammai meritocratiche imponendo la propria dittatura per il tempo che le è concesso. Un feudo da conquistare per piantare la propria bandiera fino a nuova conquista.
Alzare la voce per chi? e poi perché (?) se i musei esistono solo per opera e virtù di questo o quel potere politico e non per risposta ad un’esigenza ( cosa assolutamente logica !)
La disaffezione della gente è spiegata benissimo in questo articolo:
/“tutta quest’“arte” ha stufato (se non indignato), grazie al bailamme di quotazioni gonfiate, critici retori, curatori esaltati, giornalisti appiattiti, uffici stampa aggressivi, artisti dopati, direttori fantasma, consulenti strapagati, investiture ai soliti amichetti, cantieri snervanti, collezionisti fantastiliardari, mostre-monstre e rendiconti bizantini. Tutto in un brodo unticcio di spiazzante autoreferenzialità./
Ma questa é l’arte contemporanea e non potrebbe essere altrimenti !
E’ un “non luogo” in cui gli Artisti , che una volta erano quelli che trasformavano il pensiero in qualcosa –oggi sono tutti quelli che hanno la capacità di trarre profitto (economico o in termini di notorietà )da un qualcosa di inconsistente.
Sono Artisti, gli Artisti, i Critici, i Curatori, i Giornalisti, i Galleristi, i Collezionisti, i Direttori dei musei…Tutti !
L’azienda Arte risponde perfettamente agli standard di una qualunque impresa Italiana – è cioè
Composta da :Presidenti,Vicepresidenti, Direttori , Vicedirettori, amministratori, amministratori delegati…e 2 operai !
Ottocento persone (qualificate nelle cose più assurde ) che comandano e quattro gatti che lavorano.
La disaffezione nasce proprio dall’aver perso di vista la “concretezza dell’arte” in nome di un intellettual-pensiero che è “elitario” in quanto serve a motivare l’esistenza di “alcune professioni” penalizzando una moltitudine di persone che da questo sistema non ne trae più alcun vantaggio nemmeno“emozionale”.
l’arte contemporanea delle fondazioni e dei compagni di merenda farà la fine della finanza americana.
Beato sia quel giorno.