VOCE DEL VERBO TAGLIARE

di - 23 Gennaio 2011
Giacimenti culturali. Peccato che, a
guardarli oggi, ricordino i pozzi del Kuwait, in fiamme dopo la fuga di Saddam
sui cocci di Desert Storm. Ne è
passato di tempo dalla più o meno felice intuizione di Gianni De Michelis –
all’epoca Ministro del Lavoro, non dei Beni Culturali! – che, nello stanziare
536 miliardi di lire in progetti per il censimento digitale di opere d’arte e
siti di pregio, vagheggiava la trivellazione del patrimonio culturale nostrano;
ne riconosceva il potenziale in termini di sfruttamento, efficace termine
proprio del dizionario petrolifero; ne intuiva i vantaggi della messa in valore,
dell’applicazione di strategie che conducessero a un profitto generalizzato e
diffuso. Era il 1987. Di quei miliardi si è persa memoria, ignoriamo per quali
rivoli si siano dispersi; quale forma di burocrazia golenale li abbia drenati
nel sottosuolo del desolato impoverimento generale. I pozzi, allo stato
attuale, sono scheletrini arrugginiti bloccati da tempo. Non gorgogliano,
semmai di tanto in tanto rombano. Stile Pompei.

Il settore della cultura ha un problema:
i soldi. Mancano, a tutti i livelli. Dai musei agli enti lirici, dai siti
archeologici a quel fantasioso oggetto misterioso che è il “paesaggio”, tanto
chiaro e onnicomprensivo nella sua definizione Comunitaria – mai del tutto
recepita in Italia – da far tremare i polsi per quanto può significare e quanta
cura merita. Senza riuscire a ottenerne. Il tema è caldo, ma la discussione si
aggiorna a oltre vent’anni fa. E di lì non si sposta: fragilità dei mercati e
crisi varie impongono i piedi di piombo in termini di debito pubblico, perché
ormai è difficile persino essere debitori; e nel taglio generalizzato i più
deboli finiscono con le spalle al muro. L’entità dei tagli alla cultura
impressiona, ma chiede un reale sforzo di responsabilità. Perché il settore
cultura, chiamato a contribuire – certo in maniera non esclusiva – al proprio
sostentamento, annaspa tragicamente. Vera o meno che sia, l’uscita di Tremonti
in Consiglio dei Ministri, quella dell’ormai celebre “con la cultura non si mangia”, segna il passo di un preoccupante
smarrimento a livello di strategie politiche. Ma svela anche, implicitamente,
l’impietosa nudità di un re che da troppo tempo non si cura nemmeno più di
cambiarsi le mutande.


Mancano i soldi e lo Stato non ne mette.
Potrebbe fare di più: in Spagna succede così, in Germania e Francia pure, in
Svizzera anche. L’Italia in questo periodo è più vicina ad altri modelli:
Grecia, Portogallo, magari Irlanda. Ma attenzione: fuori dalle logiche
indignazioni e dalle condivisibili serrate, limitarsi al “si può dare di più” ci riporta ancora una volta al fatidico 1987,
quando con questa litania ci hanno vinto giusto Sanremo. E intanto però il
mondo è cambiato.

Nella sua arrampicata sugli specchi, il
ministro Bondi, nel tentativo di scrollarsi di dosso i calcinacci di Pompei, ha
accusato del disastro il sistema dirigenziale dei beni culturali. Tentativo
boomerang perché, a maggior ragione negli anni dell’imperversare di Brunetta,
le eventuali mancanze dei dipendenti dello Stato sono comunque da leggere come
effetto di indirizzi politici flebili. Eppure, come ogni leggenda che si
rispetti, un fondo di verità c’è: tra POIN e POR, orride sigle da misure
comunitarie per sostenere interventi alla cultura nelle regioni del Sud Italia,
sono stati messi a disposizione quasi 6 miliardi di euro da spalmare nel
periodo 2007-2013. Siamo al giro di boa: gli impegni di spesa superano di poco
i 420 milioni, i soldi effettivamente spesi non toccano i 300. La politica ha
colpe enormi: colpe antiche, perché ha deresponsabilizzato un settore incapace
di spendere il poco che ha; colpe recenti, perché almeno prima qualche cosa
dava, ora invece ha pure ritratto la mano.


In un panorama desolante, le reazioni
tendono al solito piagnisteo. Attizzato dai soloni che, senza suggerire una
formula accettabile, auspicano un non meglio precisato intervento dei privati,
vagheggiando l’imprenditore deus ex
machina
che si mette una mano sul cuore e l’altra sulla tasca di dietro.
Ignorando come la forma più compiuta di partecipazione del privato al settore pubblico della cultura sia arenata in
Italia alla fondazione di partecipazione, istituto che non può essere sempre e
comunque l’unica risposta plausibile. E ignorando come le critiche a un sistema
fiscale che inibirebbe le erogazioni liberali alla cultura e frustrerebbe il fund raising siano in realtà
pretestuose: è dal 2000 che si sono attivati sistemi per la defiscalizzazione
dell’investimento culturale che ci mettono in linea con gli altri Paesi
dell’Europa che conta. Chiediamoci allora perché l’imprenditore brianzolo di
turno preferisce spendere in SUV piuttosto che in FAI. Non è questione di
tasse, ma di gusti.

L’avvento di Mario Resca nel panorama
della cultura nostrana ha fatto venire a molti il mal di pancia. Il suo slancio
verso la nascita del museo-azienda poteva essere, a prescindere dalle
connotazioni etiche, una risposta più strutturata rispetto al carrozzone delle
mostre “grande evento”, menzogna di sostenibilità economica degna della più
pompata bolla speculativa. Tutto si è raffreddato con la facilità di un cheeseburger:
e mentre il Louvre prevede di incassare 400 milioni di euro dalla trasferta ad
Abu Dhabi (entro il 2013), le ultime notizie di Resca arrivano da Cuba, dove
nel 2011 porterà a svernare Caravaggio. In cambio di cosa?

francesco
sala


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper
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