VOGLIA DI EPICA

di - 15 Dicembre 2010
Signori, è ufficiale. Abbiamo la prima opera della “nuova
epica” anche in campo visivo. Ovviamente non è venuta fuori dall’arte
contemporanea (e come potrebbe essere altrimenti, nelle condizioni attuali,
anche e soprattutto italiane?). Si tratta invece del cortometraggio
fantascientifico 2081 (2009) di Chandler Tuttle, basato sul racconto Harrison Bergeron (1961) di Kurt Vonnegut. Ambientato in una società –
naturalmente – distopica, in cui l’eccezionalità atletica e intellettuale viene
annichilita a vantaggio dell’universale mediocrità, dell’egualitarismo al
ribasso. Harrison è l’eroe neo-romantico della riscossa creativa, di
un’attitudine finalmente eroica e anti-conformista. Pur con tutta la rozzezza
concettuale e le ingenuità artistiche di un giovane autore americano alle prese
con questi argomenti, l’opera registra efficacemente il mutamento di un clima
culturale, di un’atmosfera, di un atteggiamento diffuso. La rinascita di
un’esigenza.

In musica – senza dimenticare il discorso unico che stanno
portando avanti da più di dieci anni i Sigur
Rós
, all’insegna di un efficace emotional
ambient
– il nuovo respiro epico caratterizza le ricerche di gruppi
“primitivi” già nei nomi che si sono dati, come Mastodon, Baroness, Torch, e poi Down, Isis, Neurosis. E ancora, su un versante più
riflessivo-meditativo (a tratti, anche depresso e ossessivo; ma,
effettivamente, epica è anche La
Gerusalemme liberata
): Crowbar, Sleep, Weedeater, Jesu. I quali
hanno scelto di fondere creativamente progressive, metal e post-grunge, sulla
scia dei Kyuss e del loro stoner rock. L’idea base era quella di
espandere indefinitamente l’intuizione fondamentale spalancando immense
praterie sonore. E anche di narrazione, come fanno i The Sword, che rivitalizzano gli impianti grandiosi dei Metallica
con un immaginario preso di peso dalla nuova dark fantasy (George R. R. Martin & Co.).


Nell’arte visiva contemporanea, qualcosa del genere si
comincia a intravedere, per esempio, nelle installazioni a metà fra esoterismo
primo-novecentesco e mitografie vichinghe di Matthew Day Jackson (1974), o nelle sculture composte ossessivamente
dallo svedese Michael Johansson,
assemblando e montando oggetti di design provenienti dall’età dell’oro della
produzione industriale (dagli anni ‘50 ai ‘70).

E proprio l’ossessione sembra essere il concetto chiave di
queste nuove epiche. Ossessione intesa come ricerca spasmodica, come creazione
di interi mondi a partire da frammenti-relitti-rovine culturali (al di fuori e
al di là della prospettiva nostalgica), come costruzione del sé alternativa e
contrapposta a quella proposta dal mainstream. In un periodo in cui il concetto
stesso di un “fuori”, di “underground”, persino di “avanguardia” non solo è
andato incontro a pesanti ridefinizioni in ogni campo della conoscenza, ma è
stato perfettamente integrato fino all’annullamento nella produzione culturale,
che cosa rimane di assolutamente e propriamente estraneo a questo “dentro” che
tutto pervade e riduce (e che possiamo chiamare, alternativamente, Spettacolo,
Ordine, Omologazione) se non una sana e robusta ossessione creativa?


Tanto più che in tale mutamento espressivo ci inseriamo a
pieno titolo, e non solo con personalità singole e isolate ma con un movimento
vero e proprio, ormai solidamente strutturato: il New Italian Epic, sistematizzato dai Wu Ming nell’ormai famoso promemoria omonimo [1]. In Italia,
l’adozione di un approccio del genere trova la sua ragion d’essere nella
situazione attuale, che sembra prefigurare gli sviluppi eventuali di altri
Paesi, e al tempo stesso costituisce una sorta di sprofondamento, di paralisi
collettiva e connettiva, lo “spaesamento
di cui parla Giorgio Vasta [2].

Gli scrittori più consapevoli rispondono a questa sfida
sopperendo alle lacune della storiografia ufficiale e innestando la narrazione
letteraria in quella storica: la memoria, la ricostruzione del passato e dei
rapporti causali tra gli eventi sono gli unici antidoti disponibili ed efficaci
al presente perpetuo che ormai costituisce, da almeno un trentennio,
l’estensione unica e monolitica della percezione (“questa specie di ‘anni ‘80 ideali eterni’ che abbiamo avuto in sorte, e
che non sembrano avere nessuna voglia di passare
” [3]).

Si assiste allora nelle opere di questi autori più o meno
nuovi – il Romanzo criminale (2002)
di Giancarlo De Cataldo, Gomorra (2006) di Roberto Saviano, L’ottava
vibrazione
(2008) di Carlo Lucarelli,
Hitler e Italia De Profundis (2008) di Giuseppe
Genna
– a una strana e feconda saldatura fra tempo mitico e tempo storico:
la narrazione epica è la via scelta per affrontare e interpretare l’Italia di
oggi. Mentre, con ben altra potenza e complessità, l’americano William T. Vollman è riuscito
addirittura a comporre in Europe Central
(2005) “la nostra epica occidentale,
mentre l’occidente si folgora nel suo tramonto […] epica apparentemente
storica, fondamentalisticamente storica
” [4].


Infine, a chi – come Alessandro Dal Lago [5] – dipinge
questo atteggiamento come pretestuoso e velleitario, bisognerebbe ricordare che
il ruolo degli intellettuali non è quello di vagheggiare perdute età dell’oro
(un vecchio vizio italico, peraltro), ma di investire tutte le proprie forze
nella comprensione e nella trasformazione della realtà: se siamo ridotti così,
è anche per la sostanziale e completa abdicazione a questo compito. Il racconto
di questi difficili e disgraziati anni italiani è invece propriamente,
intrinsecamente epico – tolkieniano
verrebbe quasi da dire – e non una proiezione spettrale, un’illusione
auto-generata e consolatoria. Come tale, perciò, va elaborato.

[1] Cfr. Wu Ming, New
Italian Epic.
Letteratura,
sguardo obliquo, ritorno al futuro
, Torino 2009.

[2] Cfr. G. Vasta, Spaesamento, Roma-Bari 2010.

[3] Editoriale, in alfabeta2,
24 giugno 2010, www.alfabeta2.it/2010/06/24/editoriale/.

[4] G. Genna, William T. Vollmann, “Europe Central” (recensione), in Carmilla, 20 settembre 2010, www.carmillaonline.com/archives/2010/09/003623.html#003623.

[5] Cfr. A. Dal Lago, Eroi di carta. Il caso “Gomorra” e altre epopee, Roma 2010.

christian caliandro


*articolo pubblicato su
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