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03
marzo 2022
Volontariato: fare un passo indietro e rispettarne la dignità
Politica e opinioni
Se l'Italia non avesse un tasso di disoccupazione giovanile così elevato la maggior parte delle polemiche sul volontariato semplicemente non esisterebbero. Note a margine di una spinosa questione e qualche idea per una ideale correzione
Il recentissimo dibattito che ha avuto ad oggetto il coinvolgimento di volontari per l’Eurovision di Torino, ritinge di attualità una questione mai davvero risolta nel mondo della cultura, e vale a dire la questione del volontariato.
La questione è molto spinosa, ma bisogna avere il coraggio di poter affrontare il tema anche fuori da una mera visione di management o, prospettiva che sempre più alta di tutte emerge quando ci si addentra in questa tematica, dal punto di vista del “lavoro-non-retribuito-mascherato-da-volontariato”.
Il volontariato, infatti, è un tema che da molti, in Italia, è percepito come sensibile, e se questo è indubbiamente un segno d’attenzione, dall’altro rischia di appiattire il dibattito su riflessioni che vengono percepite come innocue, per evitare di andare incontro a critiche non costruttive, condizione che sempre impoverisce il dibattito pubblico.
Premesse intorno al “lavoro volontario”
Data la sensibilità del tema, pertanto, è forse opportuno stilare una serie di premesse per contestualizzare meglio la riflessione:
Punto primo: nel seguito non si farà riferimento a fatti specifici, ma ad una riflessione ampia sul tema del volontariato;
Punto secondo: lavoro e volontariato sono e devono restare due elementi distinti, nella cultura come in ogni altro settore della vita sociale;
Punto terzo: qualsiasi abuso, del lavoro così come del volontariato, è sbagliato.
Stabilite le premesse iniziali, è però necessario estendere il raggio della riflessione, perché spesso, come nel caso dell’Eurovision, il volontariato è oggetto di critiche ampie, che partendo da una base di partenza condivisibile, finiscono in qualche modo con lo “svilire” il comportamento prosociale delle persone.
È dunque forse il caso di centrare il “focus” dell’attenzione, perché il problema in Italia non è affatto il volontariato. Al massimo è il lavoro.
Se l’Italia non avesse un tasso di disoccupazione giovanile così elevato la maggior parte delle polemiche sul volontariato semplicemente non esisterebbero. Se ci fosse la stessa disoccupazione giovanile tedesca, a nessuno verrebbe mai in testa di protestare se un’organizzazione chiedesse il coinvolgimento di volontari per la realizzazione di un evento.
Quando si inquadra il volontariato in una dimensione economica para-lavorativa, si riduce il “valore” del gesto, dell’impegno, della professionalità. Chi partecipa a progetti in forma volontaria, attribuisce a tali progetti e alla propria partecipazione un valore ben più grande di una giornata di lavoro. Si fa volontariato per tantissimi motivi, personali e anche sociali.
E non c’è niente di male nel prestare la propria opera volontariamente per la realizzazione di eventi o altre iniziative che, senza il lavoro volontario, semplicemente non potrebbero essere sostenute. Non è certo il caso dell’Eurovision, certo, ma è un caso molto frequente nella nostra cultura ed è un caso che, a tutti gli effetti, sotto alcune visioni potrebbe essere oggetto di pesanti critiche.
La figura del volontario
In effetti, quella del volontariato è una tematica che può essere ben riassunta con la figura proverbiale del cane che si morde la coda. Eppure una soluzione potrebbe esserci.
Uno spunto potrebbe essere, ad esempio, la definizione di due specifici modelli di volontariato:
a) Volontariato pagante, in cui i volontari “pagano” l’organizzazione per prendere parte ad un’iniziativa o ad un progetto cui credono e che sostengono non solo con il proprio operato ma anche con un contributo economico;
b) Volontariato “retribuito”, in cui i volontari vengono contrattualizzati secondo il CCNL applicabile alle mansioni loro affidate, con la possibilità di effettuare, in un dato periodo di tempo, una donazione liberale di pari importo a vantaggio dell’organizzazione.
Attraverso sistemi tecnici che dovrebbero essere opportunamente definiti (deroghe a norme fiscali, fondo di sostegno al volontariato, defiscalizzazione delle donazioni, ecc.), questa classificazione introdurrebbe sicuramente degli elementi positivi.
Oltre all’aspetto più evidente, vale a dire la definitiva eliminazione dei sospetti di “lavoro mascherato da volontariato”, una classificazione di questo tipo stimolerebbe le organizzazioni a definire con maggiore dettaglio e precisione “l’esperienza di volontariato”, facendo in modo che le aspettative (non-monetarie) del volontario vengano ad essere soddisfatte.
Ma una tale misura introdurrebbe altresì degli aspetti meno desiderabili: perché in economia comportale è dimostrato che “il possesso” è un valore per gli individui.
Senza entrare in specifiche tecniche, è abbastanza comune che un individuo tenda a sovrastimare il valore di un oggetto soltanto perché “è suo”, al netto di qualsiasi valore “affettivo o estetico”. n altri termini, “cedere” vale di più che “comprare”.
Applicato alla questione del volontariato, dunque, tale soluzione potrebbe incentivare comportamenti egoistici in soggetti che, avendo partecipato per spirito pro sociale, sperimentino poi fatica a “donare” il compenso ricevuto.
Si potrebbero sicuramente trovare delle “norme correttive” all’interno dei contratti, ma sarebbe in ogni caso una “sensazione” che proverebbero in molti, trasformando in “denaro” un’azione che, con il denaro non aveva nulla a che fare.
Qui dunque giunge il momento della riflessione più importante: saremmo disposti, come cittadini, a correre il rischio di trasformare in “questioni meramente economiche” il grande apporto che i volontari svolgono nella nostra cultura?
Per molti, la risposta sarà sicuramente negativa. E allora mi chiedo: non è ciò che già facciamo ogni qualvolta sospettiamo che un’organizzazione utilizza volontari solo perché non vuole pagare gli stipendi?