VUOTI A (P)RENDERE

di - 6 Ottobre 2010
Abbiamo tutti del vuoto in eccesso, di
fronte al tempo. Martin Heidegger suggerirebbe che la nostra “attuale,
esasperata apertura al vuoto deriva direttamente da una insopprimibile volontà
di esibire costantemente la migliore temporalità dell’essere
”. Il nostro
scopo di osservatori, la nostra compulsione di narratori è diventata quella di
costruire una durata. Nell’arco che congiunge qualsiasi inizio a
qualsiasi fine viviamo con il tempo, a volte a suo favore e a
volte contro, diventando con-temporanei. La nostra esistenza è
l’esperienza di una marcata osmosi con tutto ciò che accade nel fluire degli
anni, nella consapevolezza di un’origine che ci ha preceduto e di una fine che,
inevitabilmente, ci vincerà; origine e fine che sono però – anche se spesso
siamo tenuti a dimenticarlo – fuori dall’esperienza del tempo. Questa insana
attitudine a essere e a trasformare con il tempo è quanto di più
difficile esista. Difatti.

Alcuni sostengono che: se l’arte del passato oggi è
diventata un fantasma del contemporaneo – cioè qualcosa di morto che si rifiuta
di morire – allora ne consegue che l’evocazione del vuoto è il simbolo della
relazione irrisolta, distruttrice, tra l’influenza e l’azione (Jorge Peris). C’è anche
chi ritiene che l’arte contemporanea non sarebbe niente senza la generosità del
Grande Nulla: della morte creata dal XX secolo (Christian Boltansky). È come se
oggi le nuove generazioni di artisti avessero ricevuto una fortuna da un
benevolo, anonimo benefattore che avesse lasciato loro la scelta di plasmare del
buio
in qualsiasi modo (James Turrell).

Molti artisti, inclusi musicisti e scrittori, sono alle
prese con il capire che cosa essi abbiano avuto in eredità e che cosa ci sia
bisogno di farne. Alcuni, tanto nulla lo sprecano come se avessero ricchezze
intere, perché in quello credono di aver trovato intere ricchezze, interi vuoti
(Žilvinas Kempinas). Altri,
questo vuoto che si sono ritrovati ad amministrare, hanno provato
a ignorarlo, a loro rischio e pericolo, provando a marchiarselo dentro o a
trasformarlo in una sorta di se stessi (Marc Quinn). Altri ancora sono quelli che hanno deciso di
astrarsi dalla volontà e da un sentimento astioso contro il passato, tentando
di crogiolarsi nell’autorità di una Storia mai arrivata.

L’arte contemporanea è complicata. Cercare di capire il
lascito dell’arte è un po’ come cercare di capire come sia attualmente
possibile vedere la luce del cielo da una stella estinta da molto tempo, forse,
oggi, la più vivida delle cose mancate (Olafur Eliasson). Tuttavia, questo eterno dialogo con
il vuoto non distrugge la realtà delle cose: l’uomo si ritrova in essa, ma in
questo suo ritrovarsi conosce anche l’alterità delle cose, un’alterità che egli
non ha posto e che deve rispettare, un’alterità che lo definisce e che perciò
non può annullare senza annullare se stesso (Michael Johansson).

Ma la realtà oggi ci è tornata indietro, sotto forma di
vuoto (Susan
MacWilliam). La realtà esclusa non può che condizionare quella ipostatizzata nel
contemporaneo, e al contenuto escluso si è dovuto necessariamente sostituire un
altro contenuto, definito appunto dall’esclusione (Cezary Bodzianowski).

Sono così nate le teorie su questa nuova arte: teorie,
dunque definizioni. L’artista è diventato schiavo di queste. I linguaggi a poco
a poco si sono cristallizzati e le nuove opere, installazioni, architetture (Do Ho Suh), live-media
performance e videoevocazioni hanno assunto una fisionomia sempre più uniforme,
sempre più piena di vuoto. Formula di ogni contenuto che si rispetti. La
concettualizzazione si è esasperata e ha condotto proprio a quello che si
voleva combattere: il genere, il tipo. E quando si definisce l’arte
contemporanea come cerebrale e intellettualistica, si vuole affermare proprio
questo. Essa è rimasta vittima di ciò che ha voluto eliminare, nel tentativo di
rappresentare il Nulla: vittima del contenuto, del concetto. Il concetto di arte è venuto così
a coincidere con la scoperta della sua consistenza e della sua funzionalità,
all’interno dell’oramai volubile spirito del tempo (Kader Attia).

L’arte contemporanea appare oggi ai suoi re-censori uno
pseudo-valore ogni volta che si pensa di risolverne la natura in qualcosa di
gratuito o in un superamento della propria funzionalità. Oggi l’atto estetico
va analizzato tenendo conto di ciò che lo determina, dello stato del suo
oggetto. Il discorso sull’arte è oggi irrimediabilmente legato a un’analisi ontologica, a una lettura
di quell’essere in quanto tale di cui l’arte è funzione: l’uomo (Antony Gormley).

Per
noi, dunque, tragici, contemporanei spettatori del nulla e della speranza, non
resta che guardare e ripetere, ripetere un’insospettabile Parola proferita da
Heidegger e dal suo stesso Tempo. “è
il tempo degli Dei fuggiti e del Dio che viene. Povero è il tempo e perciò
ricchissimo il suo trasformatore. Così ricco che spesso, nel pensare a quelli
che furono e nell’attendere colui che viene, egli vorrebbe venir meno e
soltanto dormire in questo apparente vuoto. Ma egli tien tutto, fermo nel nulla
di questa notte
”.

articoli
correlati

Jorge
Peris al Macro

Christian
Boltansky all’Hangar Bicocca

James
Turrell a Villa Panza

Zilvinas
Kempinas alla Biennale di Venezia 2009

Marc
Quinn alla Casa di Giulietta

Olafur
Eliasson alla Biennale di Architettura 2010

Michael
Johansson ad Arte Fiera 2010

Susan
MacWilliam alla Biennale di Venezia 2009

Cezary
Bodzianowski da Zero…

Do
Ho Suh a Los Angeles

Kader
Attia a San Gimignano

Antony
Gormley a Milano

ginevra bria


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 67. Te l’eri perso? Abbonati!

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