WALK ON THE MILD SIDE |

di - 15 Maggio 2007


“Teishitsu della capitale andò ad ammirare la luna sulla baia di Suma, ove compose i versi:
L’ombra dei pini
E la luna alla quindicesima notte,
o Chunagon!
Per nostalgia di quel folle poeta dell’antichità decido in autunno di recarmi al monte Kashima a contemplare la luna.”



Nel 1687, incurante dei rischi che lo attendevano lungo le strade infestate di briganti, del freddo e degli altri disagi materiali, Bashō abbandona la sua capanna di frasche per compiere un lungo viaggio, al solo scopo di ammirare la luna ripensando a un antico letterato. Il resoconto che lascia di questa sua esperienza è racchiuso in alcune pagine di luminosa bellezza, Note di viaggio a Kashima, che a distanza di secoli continuano a toccare il lettore per l’immediatezza con cui rendono un movimento prima di tutto interiore. Il grande poeta giapponese non è certo stato il primo o l’ultimo artista a dedicarsi al camminare come pratica dello spirito: qui lo si ricorda, tuttavia, perché la sua lontana immagine bussava insistente ai pensieri raccolti di recente nel corso dell’inaugurazione della mostra di Hamish Fulton (alla galleria Alessandra Bonomo di Roma) e faceva leva a una serie d’interne perplessità, sollevandole fino a questo scritto.
Fulton è stato uno degli artisti di spicco in quel gruppo eterogeneo e difficilmente etichettabile che s’impose al finire degli anni sessanta, sul crinale tra l’arte concettuale e ambientale: egli, inoltre, è stato compagno di studi di Richard Long, cui per molto tempo è rimasto comunemente associato dalla critica che intendeva s ottolineare la radicalità delle rispettive prassi. I due, si sa, camminano: Long, peraltro, si ritiene uno scultore che realizza le proprie opere attraverso i passi e modificazioni effimere del paesaggio come un cerchio di pietre, mentre Fulton pone l’accento sull’aspetto esperienziale (per la caratteristica combinazione di progettualità ideale, azione in tempo reale e corporeità espressiva, più avvicinabile dunque alla performance), senza interferire materialmente con l’ambiente attraversato. Entrambi, inoltre, scrivono, lasciando come precipitato letterario delle loro camminate testi più o meno minimali, spesso costituiti da semplici annotazioni circa durata e chilometraggio delle escursioni. Sulla natura di questi scritti, e più ancora in generale sulla documentazione dei due artisti, ci sarebbe molto da discutere, se non altro a partire dalle numerose affermazioni rilasciate da Fulton in interviste e introduzioni a cataloghi, del tipo “l’opera d’arte non può rappresentare l’esperienza di una camminata”, oppure “una camminata ha una vita propria e non ha bisogno di essere trasformata in opera d’arte”. Ora, tenuto conto dell’aspetto autonomamente creativo della scrittura si può ben pensare che i resoconti di viaggio dei due artisti non siano tanto documenti di tipo rappresentativo, ma piuttosto atti artistici in séche elaborano e ripropongono in forma diversa il dato esperienziale di una camminata. Se ciò preserva in qualche modo il progetto mentale che è all’origine dell’operazione, non fa tuttavia che ricondurre la conclamata novità e radicalità di un simile ‘movimento’ artistico a una ben riconosciuta tradizione letteraria, arrancante sulle orme di un Bashō per le montagne o un Robert Walser lungo vie più cittadine.
Ci si chiede, insomma, dove e quale sia l’opera d’arte che artisti celebrati come Long e Fulton intendono offrire. Edward Lucie-Smith, in un testo di qualche anno fa (Arte Oggi, Mondadori 1991), proprio in relazione al duo in discorso e ai loro percorsi a piedi rifletteva che “l’arte terrestre si rivela perciò legata alla performance art e al concetto, assai diffuso, che sia un comportamento ritualizzato, piuttosto che la produzione di oggetti, a costituire l’elemento più importante dell’attività dell’artista d’avanguardia”. Se arte fosse in sé e per sé il camminare, la questione potrebbe dirsi risolta: nondimeno, quando all’interno di un museo o una galleria ci si trova a osservare gli oggetti presentati da Long e Fulton come arte, risulta difficile non considerare questa sottoposta a una sorta di experimentum crucis circa le sue intenzioni e pretese di dematerializzazione concettuale e rituale immediatezza.

A parte le fotografie di paesaggio – senz’altro suggestive ma che, allora, se prese per l’appunto come pure fotografie subirebbero la concorrenza di fotografi ben più esperti ed ispirati, mentre sul versante concettuale dovrebbero fare i conti con le aporie già a suo tempo esposte da Douglas Huebler sulla persistenza dell’opera attraverso la documentazione – i cartelli che commemorano i percorsi di Fulton, allo stesso modo dei poster che Long o lo stesso Fulton stampano partendo da immagini legate alle proprie camminate (spesso, va pur detto, con derive pop e approdi a una grafica d’incerta misura quanto ad accostamenti cromatici e scelta dei caratteri tipografici), colpiscono infatti per la loro riproducibilità meccanico-commerciale, al punto da lasciare l’impressione un po’ mortificante di non trovarsi di fronte a qualcosa di troppo diverso da modesti fototesti e semplici memorabilia alpinistico-sportive. Con schiettezza squisitamente britannica, ha scritto Fulton che “vendo arte per pagarmi la prossima passeggiata”. Posto che il problema è proprio cosa qui sia arte, lasciamo la galleria e mentre (a nostre spese) camminiamo per le strade di Roma, pensiamo intanto anche ad altri artisti che hanno trovato soluzioni diverse per sciogliere il dilemma neoavanguardista tra documentazione e opera d’arte, ricorrendo con efficace misura a forme artistiche stabilite come la scrittura o la scultura ‘materiale’ per sintetizzare concetto ed esperienza e realizzare opere in sé autonomamente compiute, ben isolate dai cortocircuiti formali di cui si diceva.
È il caso, per esempio, del serbo Míroslav Mandić, il quale tra il 1991 e il 2001 ha percorso a piedi senza sosta 60.000 chilometri per tracciare idealmente sulla cartina europea un’immensa rosa, la rosa del vagabondare, collegando le tombe di poeti amati come Blake e Rimbaud e lasciando come traccia del passaggio dieci libri di poesie scritti lungo il cammino (sono stati stampati in proprio dall’artista a Novi Sad con carta assai scadente e delle belle copertine turchesi).

E infine, forse perché le strade che scivolano ora sotto i piedi sono quelle del centro storico di Roma, si finisce per ragionare di Nito Contreras, un artista galiziano che da anni cammina per la capitale prendendo i percorsi seguiti a modello di sculture dalle dimensioni e materiali diversi, pensate per essere disposte all’aperto come energetici punti di riferimento nello spazio. Da una recente riflessione dedicata al tema in discorso (Francesco Careri, Walkscapes, Einaudi 2006), si ricava che “il camminare è un’arte che porta in grembo il menhir, la scultura, l’architettura e il paesaggio”. Ecco, nelle sculture di Contreras il rapporto antropologicamente arcaico e artisticamente persistente tra l’uomo e il territorio viene riaffermato dall’emersione d’inedite forme urbane, che degli antichi segnali d’orientamento approntati nella preistoria come le ‘pietre letterate’ mantengono la misteriosa attrazione, estrusioni materiali di una personale via nel mondo tracciata attraversando le migliaia d’altre con discreta intensità. Resta allora, lungo queste vie, da sciogliere infine l’eterna questione di quale sia la differenza tra l’arte e la vita, e quanto sia il camminare un passare tra le cose per riconoscerle, o l’andare stesso un senso in sé compiuto.

luca arnaudo

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 38. Te l’eri perso? Abbonati!

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  • Buongiorno! ...per curiosità mie, mi piacerebbe se lei ha letto il libro, oppure in caso negativo, conoscere la fonte web dal quale ha tratto i seguenti versi:

    “Teishitsu della capitale andò ad ammirare la luna sulla baia di Suma, ove compose i versi:
    L’ombra dei pini
    E la luna alla quindicesima notte,
    o Chunagon!
    Per nostalgia di quel folle poeta dell’antichità decido in autunno di recarmi al monte Kashima a contemplare la luna.”

    Grazie, saluti.

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