Rebecca Bellantoni, Bhajan Hunjan, Onyeka Igwe, Zinzi Minott e Dominique White sono le finaliste della nona edizione del Max Mara Art Prize for Women 2022-2024, uno dei riconoscimenti più significativi nel panorama dell’arte contemporanea. Promosso da Whitechapel Gallery, Collezione Maramotti e Max Mara, il premio è stato istituito nel 2005 e viene assegnato a cadenza biennale, con l’obiettivo di supportare la ricerca di artiste emergenti, di base nel Regno Unito.
Proseguendo sulla metodologia di collaborazione tra istituzioni artistiche e maison di moda, il Max Mara Prize prevede un percorso articolato. Alla vincitrice è offerto un periodo di residenza in Italia della durata di sei mesi, organizzata su misura in base all’artista e alla proposta presentata per il premio. Nel corso della residenza, organizzata dalla Collezione Maramotti, l’artista ha l’opportunità di realizzare un nuovo ambizioso progetto, che viene successivamente esposto nell’ambito di due importanti mostre personali, alla Whitechapel Gallery di Londra e alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia che, in ultima istanza, acquisisce l’opera. Vincitrici delle scorse edizioni, sono state Margaret Salmon (2005-2007), Hannah Rickards (2007-2009), Andrea Büttner (2009-2011), Laure Prouvost (2011-2013), Corin Sworn (2013-2015), Emma Hart (2015-2017), Helen Cammock (2017-2019), Emma Talbot (2019-2022).
Per l’edizione 2022-24 del premio, le artiste sono state selezionate da una giuria composta dalla gallerista Rozsa Farkas, dall’artista Claudette Johnson, dalla scrittrice Derica Shields e dalla collezionista Maria Sukkar. Solitamente presieduta dalla Direttrice di Whitechapel Gallery – che fino ad alcuni mesi fa era Iwona Blazwick – la giuria dell’edizione 2022-24 è stata invece guidata dalla curatrice ospite Bina von Stauffenberg. La vincitrice sarà nominata nella primavera del 2023.
Questo fine settimana le artiste si sono recate presso la Collezione Maramotti di Reggio Emilia, per presenziare all’annuncio ufficiale e all’inaugurazione del grande progetto “The Age/L’Età”, realizzato dall’ottava vincitrice del premio, Emma Talbot (che ce ne parlava in questa intervista) ed esposto per la prima volta alla Whitechapel Gallery l’estate scorsa.
«Oggi, in un’epoca in cui i diritti delle donne continuano a essere messi in discussione, assicurarsi che le artiste vengano sostenute e ascoltate in tutto il mondo non potrebbe rivelarsi più urgente e importante», ha dichiarato Bina von Stauffenberg, presidente della giuria, commentando l’annuncio delle finaliste del Max Mara Art Prize for Women. «Per oltre un decennio, questo premio unico nel suo genere ha permesso ad artiste che si identificano come donne, in momenti diversi della loro carriera, di sviluppare il proprio potenziale in modi straordinari. Grazie a una residenza in Italia di sei mesi e alle risorse per produrre un’importante nuova commissione, questo premio offre loro il tempo, lo spazio e il supporto necessari».
Rebecca Bellantoni
Nata nel 1981, Rebecca Bellantoni vive e lavora a Londra. La sua pratica si articola attraverso media diversi, tra immagini in movimento, installazioni, performance, fotografie, tessuti, stampe, sculture, testi sonori e ceramiche, attingendo dal quotidiano per trasformarlo in rappresentazioni astratte. Esplorando discipline quali la metafisica, la teologia comparativa, la filosofia, la religione, la spiritualità e la loro estetica attraverso la lente stratificata di scritti (sia di narrativa che non) di autrici nere, l’artista cerca di separare e discernere i concetti di accettazione/aspettativa del “reale” ed esperienza del “reale”. Così facendo, Bellantoni esamina come questi confini – generalmente soppressi – possano offrire esperienze meditative e fungere da portali per accedere al proprio sé, oltre che plasmare riflessioni collettive e pensieri e azioni curativi.
Il recente progetto di Bellantoni, “C.R.Y: Concrete Regenerative Yearnings”, riflette sulla città, i suoi molteplici mondi, i suoi materiali (industriali e naturali) in relazione alla psiche, all’anima e al corpo del cittadino. La sua ricerca si ispira all’idea di geografia delle donne nere di Katherine McKittrick, e agli scritti di Édouard Glissant sul ruolo del paesaggio e dell’ambiente costruito sulla psiche e sulla produzione culturale di un popolo colonizzato.
Bhajan Hunjan
Nata nel 1956 in Kenya, da genitori indiani, Bhajan Hunjan si è trasferita nel Regno Unito per studiare pittura e arti grafiche. Dopo la laurea all’università di Reading e alla Slade School of Art, si è associata al movimento emergente della Black British Art. Da allora ha sviluppato un linguaggio visivo molto personale fatto di linee che fluttuano, colori e forme dal carattere simbolico, ripetizioni e motivi calligrafici che attingono sia alla cultura Sikh, dalla quale proviene, che alla tradizione artistica dell’astrazione, per incoraggiare gli spettatori a riflettere su determinati contesti sociali, spirituali ed emotivi.
Hunjan ha lavorato spesso a commissioni d’arte pubblica, realizzate in cemento, metallo e pietra. Tali opere, se site-specific, vengono sempre concepite consultando le comunità del luogo e in vari casi sono prodotte in collaborazione con altri artisti e gruppi femminili locali. Fra le sue opere più recenti vi è l’installazione all’interno dell’Exbury Egg (2021), realizzata durante il soggiorno a Thamesmead.
Hunjan si dedica con passione anche all’attività di educatrice artistica, lavorando con giovani e famiglie per creare installazioni site-specific sia temporanee che permanenti. Attualmente Bhajan è artist-in-residence presso il Maria Lucia Cattani Project e il Runnymede Explore/Stories Project con il National Trust.
Onyeka Igwe
Nata nel 1986, a Londra, Onyeka Igwe è un’artista e ricercatrice che lavora tra cinema e installazione. Il lavoro di Igwe è animato dalla domanda “come viviamo insieme?”, dimostrando un interesse particolare per le modalità con cui forme di conoscenza sensoriali, spaziali e non canoniche possono fornire risposte a questo interrogativo.
Igwe ha esposto il suo lavoro nel Regno Unito e all’estero nel contesto di festival cinematografici e in gallerie. Attualmente l’artista sta lavorando a future commissioni per The Common Guild e FLAMIN Productions, e sta collaborando con Huw Lemmey per la sua mostra presso Studio Voltaire, a Londra. Ha ricevuto il New Cinema Award al Berwick Film and Media Arts Festival nel 2019 (Regno Unito), il 2020 Arts Foundation Fellowship Award for Experimental Film (Regno Unito), il 2021 Foundwork Artist Prize (USA) ed è una delle finaliste del 2022 Jarman Award (Regno Unito).
Zinzi Minott
Il lavoro di Zinzi Minott, nata nel 1986, si concentra sulla relazione tra danza, corpo e politica. È un’ex alunna del conservatorio Laban, la prima ballerina a diventare artist-in-residence sia alla Serpentine Gallery che alla Tate.
Minott esplora il modo in cui la danza è percepita attraverso le prospettive della razza, della cultura queer, del genere e della classe sociale. Nello specifico, il suo interesse è rivolto al posto che il corpo femminile nero occupa nel vocabolario formale. Come danzatrice e filmmaker, cerca di mettere in crisi i confini della danza. Considera le proprie performance dal vivo, le esplorazioni filmiche, le stampe e gli oggetti, come manifestazioni diverse ma connesse della danza, nonché espressioni e modalità di ricerca basate sul corpo.
Minott è interessata a narrazioni spezzate e discendenze non lineari e a come l’uso dell’anomalia possa aiutarci a valutare certe nozioni di carattere razzista con cui una persona di colore è costretta a relazionarsi nel corso della propria esistenza. È interessata soprattutto raccontare storie relative alla cultura caraibica, mettendo in luce le vicende di coloro che vennero ridotti in schiavitù durante la tratta atlantica dei neri e la storia del conseguente esodo della Windrush Generation.
Dominique White
Nata nel 1993, Dominique White intreccia le teorie della soggettività nera, dell’afro-pessimismo e dell’idrarchia – un concetto che richiama l’organizzazione e l’ordine sociale della vita in mare – con le mitologie nautiche della Black Diaspora, attraverso il termine di “Shipwreck(ed)” [naufragrar(si)], verbo riflessivo e condizione esistenziale.
White vive tra Marsiglia e l’Essex e spesso lavora senza disporre di una sede fissa. Recentemente ha partecipato a mostre collettive e progetti anche in Italia, come “Hydra Decapita”, VEDA, Firenze, e “Afterimage”, MAXXI L’Aquila. Ha ricevuto il Roger Pailhas Prize (Art-O-Rama, Francia) nel 2019 durante la sua personale da VEDA e nel 2020 ha ottenuto premi da Artangel (Regno Unito) e dalla Henry Moore Foundation (Regno Unito).
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